Nella seconda metà del diciannovesimo secolo la costruzione della parte occidentale della prima ferrovia transcontinentale americana: una trappola mortale per moltissimi cinesi sfruttati e mal pagati, come racconta Tom Lin nel romanzo “Ferrovia di sangue”. Ming Tsu, orfano, altro e grosso, prova a farsi giustizia da solo…
Da Corinne (Utah) a Reno (Nevada) e Sacramento (California). 1869. Ming Tsu è un cinese alto e grosso, un orfano che non ha mai conosciuto i genitori, capelli e occhi neri, niente coda, 1,79 metri per 82 chili, pieno di cicatrici, bruciature e tagli guariti a metà. Uccise all’incirca duecento volte prima di fidanzarsi e furtivamente sposarsi con Ada, d’essere malmenato quasi a morte e reso schiavo dal padre di lei, d’aver lavorato duramente per un paio d’anni sulle Sierras alla costruzione della ferrovia pur di ritardare la morte del suo tutore Silas Root, di fuggire e iniziare a vendicarsi da pericoloso fuorilegge, presto con un’alta taglia sulla testa.
A caccia di bersagli
Ora a Corinne ha appena eliminato il primo della sua lista, Judah Ambrose, ex reclutatore di operai per la Central Pacific; si dirige verso il Lago Salato per ammazzare il bersaglio successivo, James Ellis, un altro cinico caposquadra, gli spara davanti agli sfruttati cinesi al lavoro sui binari. E riparte; ormai è “un uomo senza vincoli”; a quel punto toccherebbe anche a uno sceriffo e a un giudice; pensa che alla fine ritroverà la moglie e staranno insieme. Con lui ora viaggia il Profeta, vecchio compatriota coolie cieco, capace di esprimersi per enigmi, facendo comunque capire prima dove si troveranno guai e se l’interlocutore morirà (Ming forse no, sempre che riesca a combattere libero). A Elko si fermano in una pensione, Ming esce in cerca di vizio e liquori, li trova e si perde per le strade deserte. Una donna lo invita in un tendone dove sta per iniziare uno spettacolo di magia, ne conosce confusamente gli strabilianti interpreti, dopo rocamboleschi miracoli e scontri i due cinesi si aggregano al loro percorso, denso di avventure e morti. Fino alla fine.
Sogni, ricordi e ricordi sognanti
Ferrovia di Sangue (320 pagine, 18 euro), tradotto per Einaudi da Alfredo Colitto, premiato romanzo d’esordio per il giovanissimo Tom Lin (Pechino, 1996). Quando aveva quattro anni la sua famiglia si è trasferita negli Stati Uniti (a New York) e, nella nuova patria, si è laureato in letteratura inglese (in California), avviando poi la carriera di scrittore. Il titolo italiano sottolinea l’epopea di sfondo: la storica lenta impervia (geograficamente) terribile (socialmente) costruzione della parte occidentale della prima ferrovia transcontinentale americana, nella quale lavorarono tanti cinesi, poveri e malpagati, spesso morti in corso d’opera. Il titolo americano del libro di Tom Lin fa, invece, riferimento all’indiscusso protagonista della narrazione (in terza fissa), che ripercorre la strada ferrata per ricominciare a uccidere, questa volta non per mestiere ma per vendetta, ladro e killer a suo modo onesto. Siamo in montagna e nel deserto, fra gli animali di quegli ecosistemi (compresi vipere e puma, benevoli), a piedi o a cavallo, giusto una bisaccia sulle spalle e armi letali addosso (pistole o lungo accudito preferito chiodo), frequentemente con sangue addosso e fame dentro. Il Profeta sa molto sulla terra (al di là dei calcoli umani) e sui fossili antichi trovati per caso: “tutte le terre una volta erano state altrove, perché il pianeta girava e si muoveva continuamente, senza che nulla avesse mai un luogo fisso”. Sogni, ricordi, incubi e “ricordi sognanti” affollano la mente di Ming lungo il percorso, insieme alla necessità di far fuori ogni ostacolo, impersonato pure da indiani e ferrovieri: ho contato oltre una trentina di ostacoli morti ammazzati al di fuori di quelli della lista. Del resto, anche Hazel, la bella vedova dello spettacolo, era stata indotta a un omicidio. Torcibudella ogni volta che si può non bere acqua (difficile da trovare). Non è male intonare spesso nenie e ninnenanne: canzoni senza senso, senza ritmo, fatte per essere cantate lentamente e a bassa voce.
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