Il discorso pronunciato alla premiazione del Nobel da Svetlana Aleksievic, scrittrice di tre patrie, è diventato un libro, “Una battaglia persa”. Poche lucide pagine che dialogano con le sue grandi opere, resoconti di una testimone invisibile, canto e controcanto delle tragedie russo-sovietiche. L’interrogativo più grande: perché tanto dolore non si converte in libertà?
L’editoria italiana (e auspichiamo anche il lettore che crede ai libri come scosse telluriche) ha fame e sete di Svetlana Aleksievic. Quest’anno Bompiani ha riunito in due volumi le opere della scrittrice premio Nobel 2015, che negli ultimi anni ha lesinato libri e storie dalle grandi architetture. E allora anche i suoi discorsi vanno bene per essere trasformati in rettangoli di carta da assaporare, purtroppo velocemente. È accaduto con Perché sono discesa all’inferno? pubblicato da Castelvecchi nel 2021 (ne abbiamo scritto qui) e tocca adesso a Una battaglia persa (46 pagine, 5 euro), edito nella collana Microgrammi da Adelphi, tradotto dalla stessa Claudia Zonghetti che, negli ultimi anni, ha fatto un grandissimo lavoro sui libri di Vasilij Grossman e Anna Politkovskaja. È proprio il discorso pronunciato al momento di ricevere il riconoscimento dell’Accademia di Svezia, quello che si legge in pagine di scomode verità, densissime e attuali. Anche sette anni fa il Donbass era teatro di Guerra e per di più Putin (al quale Aleksievic ha spesso associato parole come “fascismo” e “demagogia”) faceva bombardare la Siria…
La vita del tempo
C’è qualche punto di contatto fra questi ultimi due discorsi trasformati in libretti, che dialogano con le opere maggiori, resoconti di una testimone invisibile, un unico grande canto e controcanto della storia russo-sovietica. Tornano l’autodefinizione di donna-orecchio e la storia contemporanea nel quotidiano, la moltitudine di voci e di volti di testimoni che rincorrono Svetlana Aleksievic, quelle che lei ascolta e cuce assieme come storie (Danilo Dolci faceva qualcosa di simile settant’anni fa…), un polifonico racconto orale («Raccolgo la vita del mio tempo») in cui la guerra non ha nulla di eroico, in cui l’immaginazione non basta, serve altro, serve semplicemente la verità.
La verità va offerta tale e quale.
Su questi concetti l’autrice di padre bielorusso e madre ucraina (due delle sue patrie, la cultura russa la terza) innesta poi amore e morte, ciò che da che mondo è mondo costituiscono la letteratura. L’amore, di cui «è difficile parlare» nonostante le guerre, esperienza perenne e costante, nonostante Chernobyl e nonostante il comunismo («Io ho creduto al socialismo dal volto umano fino all’Afghanistan»). La morte, imparata fin dalla più tenera età, sempre presente, conosciuta crescendo «fra carnefici e vittime».
Russia, comunismo, nucleare
Sono la Russia e l’utopia comunista (e perfino la corsa al nucleare) la battaglia persa (espressione presa in prestito da Varlam Salamov) a cui si riferisce il titolo, nessun paradiso sulla terra è stato edificato, piuttosto milioni di morti hanno insozzato di sangue una realtà molto più che controversa che esercitava, specie in Occidente, una fascinazione mai più toccata da nessuna dottrina o pensiero. Tra le voci registrate – un «piccolo uomo» dopo l’altro – c’è un pensiero che sovrasta tutto e che segna il discorso di accettazione del Nobel.
Il nostro vero capitale è il dolore. Non il petrolio. Non il gas. Il dolore. È l’unica cosa che produciamo costantemente. Ma perché tanto dolore non si converte in libertà?
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