Un uomo violento, ma anche sensibile e contemplativo. Anne Pauly racconta il padre, tra fiction e autofiction. Fruga nei cassetti e nella propria memoria per ragionare sui limiti dei genitori e andare avanti…
Letture
Quel che resta del padre, Anne Pauly cerca un senso alla vita
J’ai cueilli ce brin de bruyère
L’automne est morte souviens-t’en
Nous ne nous verrons plus sur terre
Odeur du temps brin de bruyère
Et souviens-toi que je t’attends.
Apollinaire
Cosa resta dell’essere figli dopo la morte dei genitori e cosa rimane del tempo e della storia lasciati in eredità? Anne Pauly sembra rispondere a queste domande nel suo libro d’esordio Prima che mi sfugga (149 pagine, 16 euro), L’orma editore, traduzione di Marta Rizzo, la storia, toccante e travolgente, del padre dell’autrice, Jean-Pierre Pauly, “la canaglia senza una gamba, il catorcio, la vecchia carcassa”. Tra fiction e autofiction, questo romanzo racconta cosa accade nella vita di Anne e del fratello dopo la morte del padre ed è un racconto che viene scritto prima che le immagini sfuggano, trasportate dal vento dell’oblio, immagini che riappaiono nella memoria dell’autrice come fotogrammi posti gli uni accanto agli altri a formare un quadro, commovente e a tratti malinconico, di un padre mai realmente conosciuto, una figura sfuggente.
Gli istanti che hanno preceduto la morte si sovrappongono ai momenti del funerale e poi all’immagine di Anne tra gli scatoloni nella casa del padre nelle settimane successive alla sepoltura. È qui, tra queste mura, in questa casa angusta, che le cose lasciate dal padre assumono un significato particolare. Cose e non oggetti, come le intendeva Remo Bodei. Le cose rappresentano le relazioni e gli affetti, i valori e i simboli.
«A poco a poco, una volta scomparse dall’orizzonte, le cose sarebbero scomparse anche dalla nostra memoria, assieme alla loro storia. Ecco come si intrecciano l’oblio e l’abbandono, e mi faceva venire voglia di piangere». È Anne, più del fratello e di chiunque altro famigliare e amico, a scontrarsi con ciò che resta del padre. È lei a trovare conforto nelle parole di Juliette, unico legame che il padre avesse conservato dopo il matrimonio e i figli.
Le cose definiscono anche il rapporto di Jean-Pierre Pauly con il tempo e Anne ne misura la profondità e le sfumature frugando negli scatoloni, nei cassetti, aprendo armadi e cassepanche e trovando il coraggio di scendere al pianterreno della casa paterna dove lei e il fratello hanno ammassato, anno dopo anno, le tracce delle loro esistenze, trasformando lo spazio in un deposito. Anne sceglie cosa salvare, cosa preservare e portare con sé, nel suo presente, per dare un senso alla vita che se n’è andata e a quella che continua.
Nel tentativo di nominare le cose e fissarle nella memoria per riconoscerle e capirle, viene definito il ritratto di Jean-Pierre Pauly. Rancoroso, violento, un uomo che incute paura nella moglie e nei figli, che ha trascinato in una voragine tempestosa il figlio maschio e ha lasciato segni indelebili nella stessa autrice. Ma Jean-Pierre Pauly è anche l’uomo «giusto, sensibile, contemplativo e silenzioso», l’uomo che ama le parole e nelle quali ha tentato di rifugiarsi prima che «vita, violenza e alcol si mettessero in mezzo». Nel dipingere il padre, Anne Pauly tratteggia anche quella che è stata la vita famigliare, la vita condivisa con lui.
Rovistando nella casa paterna, Anne fa i conti con i limiti dei suoi genitori ed è quella, come ha scritto Lydia Flem, «l’ultima occasione per guardarli nella loro fragilità. In fin dei conti, non erano che dei poveri esseri umani».
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