Gli ultimi sette anni della produzione giornalistica di Anna Politkovskaja, uccisa nel 2006, sono raccolti in “Per questo”. La reporter invisa a Putin, emarginata e clandestina, costruiva il dissenso inchiesta dopo inchiesta. Denunciando le atrocità dei soldati russi nel conflitto ceceno, misteriosi sparizioni e inspiegabili omicidi, il disinteresse a lungo mostrato dall’Europa dinnanzi all’arroganza del Cremlino
Da qualche giorno è scomparso Michail Gorbaciov, che con parte del denaro ottenuto col premio Nobel aveva contribuito a fondare, e aveva poi sostenuto, il periodico indipendente russo Novaya Gazeta, testata diretta dal premio Nobel Dmitry Muratovche, da marzo costretta a interrompere le pubblicazioni, per evitare di finire affogata dalla censura del Cremlino sulla guerra in Ucraina. E a cui è stata appena revocata la licenza di pubblicazione dell’edizione cartacea da un tribunale moscovita. A quasi sedici anni dall’assassinio di Anna Politkovskaja, uccisa a 48 anni il 6 ottobre 2006, il giornale su cui pubblicava le sue inchieste è con le spalle al muro. La voce della giornalista russa si sarebbe certamente alzata contro l’ennesimo sopruso di Putin e dei volenterosi esecutori del suo pensiero unico («Peccato che, come sempre, il potere sia in mano ai mediocri, mediocri cronici»). Quella voce è stata spenta, ma il suo timbro di libertà vibra ancora in libri che non spariranno. È il caso di Per questo. Alle radici di una morte annunciata. Articoli 1999-2006 (516 pagine, 15 euro), ripubblicato da Adelphi a tredici anni dalla prima edizione, raccolta di articoli e testi inediti di Anna Politkovskaja, curati post-mortem dalla famiglia e da alcuni colleghi . Sono pagine in cui la determinazione della testimone si sposano con la chiarezza espositiva di una giornalista che ha come primo scopo quello di arrivare a tutti. Niente trucchi, scorciatoie, artifici. C’è un patto sottinteso con i suoi lettori, gente che credeva nella libertà e in un’altra Russia.
Reportage immortali, oltre il silenzio altrui
Tra passacarte inoffensivi e reporter prezzolati dal potere, Anna Politkovskaja non ha mai abbandonato il solco del giornalismo, costruiva il dissenso articolo dopo articolo, sempre più invisibile, emarginata, clandestina. Condizione che, però, non le impediva di scrivere interviste incredibili (ottenute spesso in modo rocambolesco e pericoloso) ai protagonisti del tempo in Russia. Non necessariamente funzionari di grido e nemmeno oligarchi, ma chi era utile a scoperchiare le pentole della responsabilità di Putin e della sua interpretazione del potere. Sono nati così reportage immortali, sul Caucaso in fiamme (in particolare sul conflitto ceceno), su misteriosi sparizioni e inspiegabili omicidi, sulla cieca propaganda, sulle violazioni dei diritti umani dell’esercito (e sul nonnismo al suo interno), in generale sul declino della Russia ai tempi di Putin, e sul disinteresse a lungo mostrato dall’Europa dinnanzi all’arroganza del Cremlino. Anna Politkovskaja non esitava a definire vigliacchi i nuovi potenti, a denunciare la corruzione dilagante, le persecuzioni, le torture nelle carceri, il potere giudiziario asservito a quello politico. Erano cronache esatte e feroci, quelle della sua produzione giornalistica. Per questo (tradotto da Claudia Zonghetti) rende conto della parte conclusiva del suo percorso professionale: dove altri tacevano, omettevano, facevano finta di non vedere la cronista di Novaya Gazeta andava avanti, dando il meglio di sé.
I “misteri” della strage di Beslan
Non sottrarsi alle verità più scomode. Fare domande impossibili (e talvolta trovare anche le risposte). Analizzare e comprendere, contrapporre giustizia e verità a indifferenza e ignoranza. Attaccare a testa bassa chiunque abbia sbagliato, senza timori reverenziali: non un modo di fare politica, ma semplicemente le conseguenze dell’amore per il proprio mestiere. Il giornalismo di Anna Politkovskaja sta in queste poche essenziali “regole auree”. Fra gli articoli più esemplari uno sulla strage di Beslan del 2004, pagine febbrili e dallo stile convulso in cui, prove alla mano, documenti e verbali ministeriali, la giornalista dimostra che «… qualcuno aveva avvertito del probabile attentato. Non è più una voce. È un’affermazione nero su bianco: alle cinque del mattino del 1° settembre il ministero degli Interni (Arsamikov era stato interrogato in un comando della polizia locale di Sali, Cecenia) sapeva che a Beslan sarebbe stata assaltata una scuola. Che cosa hanno fatto? Niente. Le scuole di Beslan non sono state allertate. Le lezioni non sono state sospese. I boschi lungo la strada per Beslan non sono stati passati al setaccio». Non aveva seguito quella crisi sul campo, come sempre, perché si era sentita molto male dopo aver bevuto un tè in aereo, tanto male da finire in coma per tentato avvelenamento. Chissà cosa penserebbe e scriverebbe oggi Anna Politkovskaja, oggi che nessuno riesce a fermare Putin, oggi che la Russia è peggiorata probabilmente ben oltre quello che avrebbe potuto “profetizzare” la giornalista…
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