Uno scrittore e un ragazzino in bilico tra soliloquio, elucubrazione mentale e seduta psicanalitica. “Che razza di libro!” di Jason Mott – verve ironico-comica ma chiarissimo messaggio politico – è uno dei migliori romanzi dell’anno, dialoga con i migliori nomi della tradizione afro-americana e sollecita reazioni… multiple: dall’ilarità al dolore, dalla gioia alla accecante rabbia dell’indignazione
Vorrei dirvi semplicemente: – «Fidatevi di me, leggete questo libro!». So per esperienza, però, che per scalfire la vostra ragionevole diffidenza, ho bisogno di fornirvi dettagli e argomentazioni persuasive.
Cercherò, perciò, di elaborare al meglio, le suggestioni e gli spunti che mi ero appuntata a lettura in corso.
La perdita della mamma
«Chi tene a mamma nun chiagne». Un attimo. Fermi tutti. Scusatemi. Quest’incipit l’ho già utilizzato per la recensione di “L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi”. È che mi viene in mente di nuovo perché il protagonista di questa storia – uno scrittore impegnato in un tour di presentazioni in giro per gli States, al cui fianco spunta improvvisamente un ragazzino nero che gli starà alle calcagna per tutto il tempo – nel corso di un’intervista, alla domanda: – “Di che cosa parla il tuo libro?” Risponde:” – “Della morte di mia madre”. Le similitudini, se escludiamo l’altra piccola coincidenza che entrambi i romanzi, ciascuno a modo suo e nell’ambito della materia toccata, palesino un chiaro intento di denuncia, finiscono qui. Nel domino di tasselli che costituiscono la trama di Che razza di libro, e che cadendo all’indietro l’uno sull’altro formano un percorso ben preciso, la perdita della mamma, benché ultimo in ordine di narrazione e sia pure fondamentale per innescare il movimento inerziale che porta alla risoluzione del nodo della storia, resta comunque una delle tante tessere del gioco.
Una miniera per chi legge
Che libro di razza questo Che razza di libro (320 pagine, 19 euro), di Jason Mott, (p. 320; € 19) tradotto da Valentina Daniele per NN editore, vincitore del National Book Award 2021! Di grande effetto il titolo originale: Hell of a Book. Ma -tengo a sottolinearlo – la traduzione italiana non sfigura affatto. Tutt’altro. Ho molto ammirato, infatti, la destrezza – meglio forse la scaltrezza – con cui Daniele ha colto l’opportunità offertale dalla nostra lingua di rendere quel “inferno/diavolo” con “razza”. Tralasciando il mio scontato gioco di parole, la traduttrice, riconnettendosi alla apprezzabile cifra ironica del testo, ha puntato con intelligenza al cuore del tema: essere neri in USA oggi. Del pari, ci sta tutta anche l’altra opzione praticata di interpretare “soot” – il soprannome del ragazzino coprotagonista – in alternativa al letterale “fuliggine”, con il più evocativo “nero fumo”.
C’è un limite alle informazioni, considerazioni, impressioni di cui infarcire una recensione? Non credo, sebbene il buonsenso suggerisca di sfoderare il dono della sintesi. Allora la faccio breve e condenso il giudizio sul libro: vi troverete tra le mani una vera e propria miniera: ogni pagina è un filone aurifero notevole sia per la scrittura che per ciò che narra.
Rispetto alla prosa, applaudo alla verve ironico-comica predominante. Aggiungo che anche nei momenti in cui il registro cambia e irrompono toni drammatici, la qualità resta altissima. La scrittura è sempre avvincente e super godibile. Notevoli i dialoghi, reali e immaginari che siano, con battute che esplodono in un «rapido crescendo di artiglieria verbale».
Un bel prototipo di alcolista
Quanto alla bellezza del contenuto, ecco qualche altro scampolo di trama a rinforzare l’accenno fatto in precedenza. Lo scrittore protagonista, se non già del tutto alcolizzato è sicuramente un bel prototipo di alcolista. Sulle sue spalle pesa il fardello di un passato traumatizzante da cui vorrebbe disperatamente guarire. I liquori con cui fa bisboccia, il successo letterario da cui vorrebbe farsi anestetizzare, la love story che a un certo punto sembra concretizzarsi all’orizzonte, non sono altro che palliativi incapaci di estirpare le radici del malessere. Solo “Nero fumo”, lo strano, onirico compagno di viaggio che gli si imporrà al seguito, ha su di lui il potere taumaturgico definitivo. I dialoghi con il ragazzo, in bilico tra soliloquio, elucubrazione mentale e seduta psicanalitica, rappresentano l’acme tensivo della narrazione attraverso il quale si realizzerà l’agnizione finale. Tutto procede con un ritmo «vero, pulsante, urlante, convulso», capace di sollecitare nel lettore un intero “Pantone” di reazioni umane: dal sogghigno all’ilarità, dall’amarezza al dolore, dalla gioia alla accecante rabbia dell’indignazione.
Una voce militante
Eppure, mettendo da parte quanto fin qui detto a proposito di “Che razza di libro”, se dovessi puntare su un solo elemento per persuadervi a prenderlo in seria considerazione, farei leva sull’importanza politica del messaggio di Jason Mott, il quale sceglie, attraverso il suo romanzo, di essere voce militante, di parlare della condizione dei neri d’America nel nuovo millennio, di urlare cosa significhi essere nero. Un libro, il suo, di scottante attualità, che urla in una maniera del tutto personale: – “Black lives matter”!
“Che razza di libro” prende idealmente il testimone da autori ormai considerati classici della letteratura “afroamericana” quali Toni Morrison, Alice Walker, Maya Angelou e Jamaica Kincaid e riaccende il riflettore su episodi di cronaca purtroppo continuamente all’ordine del giorno. Jason Mott sembra dialogare con Colson Whithead de La ferrovia sotterranea (qui l’articolo) e prima ancora di Zona uno (qui l’articolo), ma soprattutto di Paul Beatty de Lo schiavista (qui l’articolo), romanzo rivelazione, vincitore del Man Booker Prize 2016. Per fare ciò ha creato una storia di denuncia in cui uno scrittore e un ragazzino si rifugiano in mondi immaginari più facili del mondo in cui un padre è ucciso a colpi di pistola davanti al figlio dalle lunghe braccia di un sistema che ancora nessuno ha il potere di sconfiggere. O forse ha creato una semplice storia d’amore solo «più riflessiva, tipo che forse Narciso ha passato la vita a odiarsi prima di vedere la sua bellezza, il suo valore. (..) Imparare ad amare te stesso in un paese dove ti dicono che sei una piaga per l’economia, che non sei altro che un potenziale carcerato, che la tua vita ti può essere tolta in qualsiasi momento senza che tu possa farci niente… imparare a volersi bene in tutto questo… è un miracolo» d’amore. Un prodigio riuscito perfettamente ad entrambe gli scrittori: a Jason Mott artefice della magia che vive fuori dalle pagine e all’altro – forse suo alter ego – che vive all’interno di questo che, senza dubbio, è uno dei migliori romanzi stranieri dell’anno.
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