C’è un romanzo che affronta in maniera avvincente, attraverso prospettive inesplorate, lo spinoso tema razziale. È “Lo schiavista” di Paul Beatty. L’uso della lingua è sapiente: vi si mescolano il parlato, il forbito, il gergale appunto, perfino lo scurrile, con un risultato di verosimiglianza e autenticità
Premessa:
Talvolta, come ebbe a dire Flaiano, «la linea più breve tra due punti è l’arabesco». È questo uno di quei casi, laddove, prima di giungere al consiglio di non lasciarsi scappare un libro molto, molto piacevole, ho ritenuto importante aprire una parentesi sulla letteratura afroamericana. L’esito è un pezzo insolitamente lungo, che spero non ne scoraggi la lettura.
Un premio prestigioso
The Sellout, dello statunitense Paul Beatty, vinse l’edizione 2016 del prestigioso premio letterario britannico Man Booker Prize.
In Italia il libro, intitolato Lo Schiavista (369 pagine, 18,50 euro), tradotto da Silvia Castoldi, uscì per Fazi editore.
Amanda Foreman, presidente di giuria, aveva dichiarato che tutti e sei i candidati al premio riflettevano «ciò che è centrale nel romanzo moderno – la sua capacità di difendere ciò che non è convenzionale, di esplorare l’ignoto e di affrontare tematiche spinose».
Ho considerato tali parole come un suggerimento riguardo gli elementi da tenere sotto stretta osservazione durante la lettura. Ho ritenuto, cioè, imperativo valutare se Lo Schiavista rispetti i parametri indicati per poi riferire quanto di non convenzionale, di nuovo, di spinoso effettivamente contenga.
Inverto per comodità la terna e comincio da quell’ultimo “spinoso”.
Un tema ancora spinoso
Paul Beatty, classe 1962, è uno scrittore di colore che affronta – qui, come in tutta la sua precedente produzione fatta di poetry slam (poesia orale), romanzi e racconti – il tema razziale, ancora oggi tra i più spinosi per la letteratura americana.
L’opportunità di dare voce ai problemi dei neri, ma soprattutto la necessità di stabilire se abbiano titolo a scriverne solo gli autori di colore o anche i bianchi, sono, infatti, argomenti molto discussi. Interessante, a tal proposito, la voce di Jonathan Franzen: – «Ho pensato di farlo ma non ho molti amici neri. Non sono mai stato innamorato di una nera. Scrivo di personaggi, e per scriverne devo amarli. Se non hai mai amato direttamente una categoria di persone – una persona di un’altra razza, o una profondamente religiosa – penso sia molto difficile azzardarsi, o inevitabilmente anche aspirare, a scrivere dal loro punto di vista».
L’autore de Le correzioni sembrerebbe in perfetta linea con le due posizioni assunte a capisaldi della diatriba, sintetizzabili con l’idea di ascrivere alla “letteratura afroamericana” una prerogativa politica non addebitata a quella bianca, alla quale invece compete «registrare il presente per uno spirito di esplorazione, generosità, curiosità, audacia, compassione, ma non di dibattito, né critica» (così Lionel Shriver), e di sconsigliare “agli scrittori bianchi” di praticare argomenti più consoni ai colleghi afroamericani, onde evitare – dato l’attuale popolarità dei temi razziali – l’accusa di ricercare solo il successo.
Tentativi di “invasioni di campo” di grande livello letterario, tuttavia e per nostra fortuna, ci sono. Penso all’ottima prova di Philip Roth ne La macchia umana, dove Coleman Silk, il protagonista, decide di subire un’infondata accusa di razzismo pur di preservare l’inconfessabile segreto sulla propria identità, o a quella che valse a J. R. Moehringer nel 1999 il premio Pulitzer con Oltre il fiume, un documento sui neri della Gee’s Bend, piccola comunità di ex schiavi rimasta isolata nell’omonima striscia di terra a ridosso del fiume Alabama.
Così pure non mancano gli esempi di scrittori afroamericani che hanno rivendicato un’autonomia dai temi classici di riferimento, attirandosi perciò il biasimo per aver rinnegato le proprie origini. Obbligatorio citare Everett Percival il quale ha replicato alle critiche rilevando che «essere neri non significa scrivere solamente di segregazione e schiavitù. Così come non scriverne non significa essere a favore della segregazione e della schiavitù». «Gli scrittori possono semplicemente essere attivisti silenziosi, coscienziosi romanzieri».
Lingua non convenzionale, prospettive inesplorate
Paul Beatty si inserisce, con Lo schiavista, meritatamente tra gli scrittori del calibro di Toni Morrison (prima afroamericana insignita del Nobel), Alice Walker, Maya Angelou, Jamaica Kincaid, che hanno fatto grande la letteratura “afroamericana”. Altrettanto meritatamente si è aggiudicato il Man Booker Prize per aver scritto un libro non convenzionale con riguardo alla trama, al genere, nonché alla lingua, che gli hanno consentito di affrontare in maniera avvincente, attraverso prospettive inesplorate, lo spinoso tema razziale.
Protagonista del romanzo è Bonbon, uomo di colore della piccola borghesia, che vive a Dickens, sobborgo della periferia di Los Angeles. Allevato da un padre single, studioso di scienze sociali, che lo usa come cavia per sperimentare le proprie teorie sociologiche sulla razza, dopo l’omicidio del genitore per mano della polizia, «sembra prendere coscienza delle tribolazioni della razza nera e si sente pronto a realizzare qualcosa nella vita». Quasi che il cadavere del padre gli dicesse: – «Lo vedi, negro, se una cosa del genere può capitare al nero più intelligente del mondo, immagina cosa potrebbe succedere a un deficiente come te. Solo perché il razzismo è morto, non significa che non sparino più ai neri a vista».
Far satira sulla segregazione razziale
Insieme a Hominy Jenkins, vecchio attore di colore, un tempo tra i protagonisti de Le Simpatiche Canaglie autoproclamatosi suo schiavo, reintroduce la segregazione razziale nel ghetto per spronare i neri a ricompattarsi e a rivendicare il proprio ruolo sociale. L’ avventura si concluderà davanti alla Corte Suprema, punto a partire dal quale comincia la narrazione.
La condizione dei negri in America è simile ad un disagio cronico.
La scelta dell’autore di affrontare l’argomento affidandolo alla satira, escogitando una soluzione paradossale che origina situazioni di grande comicità, fa de Lo Schiavista un libro che si legge spedito e con la risata sempre pronta a prorompere a fior di labbra. Beatty è quello che si definisce un uomo colto, che conosce il latino: spassosissime sono le pagine sui motti tatuati nell’ antica lingua. Apprezzabile che non ricorra né ad un linguaggio eccessivamente aulico, né alla finzione del gergo come capita ai negri che tra loro «con la pronuncia del ghetto» e quando vanno invece «in televisione sembrano Kelsey Grammer con il bastone nel culo». L’uso della lingua è sapiente: vi si mescolano il parlato, il forbito, il gergale appunto, perfino lo scurrile, con un risultato di verosimiglianza e autenticità da cui il romanzo trae grande vantaggio. Che cosa dire poi delle metafore? Originalissime, divertenti e contemporaneamente efficacissime.
Lo Schiavista è decisamente un romanzo piacevole, irriverente, divertente, profondo: in una parola, imperdibile.
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