Sdraiata sul letto della propria psicoterapeuta, la protagonista de “Il corpo in cui sono nata”, nuovo romanzo di Guadalupe Nettel, racconta a partire da una sua caratteristica fisica il sottile ritratto di un’epoca. Una confessione, un viaggio a ritroso nei ricordi…
Una bambina nata con un neo bianco nella pupilla, una bambina che percepisce come attraverso il corpo avvenga l’accettazione degli altri e, ancora più importante, l’accettazione di se stessi e non riesce a farsene una ragione. Seduta sul lettino della propria psicoterapeuta, come in una seduta, la giovane donna, oggi è pronta a vuotare il sacco. Possiamo dire che la ragazza protagonista de Il corpo in cui sono nata (192 pagine, 16,90 euro) il romanzo di Guadalupe Nettel (edito da La Nuova Frontiera, tradotto da Federica Niola) si distingua, in un crogiolo di aspettative e inganni, per un neo bianco nella pupilla di un occhio. Il suo racconto a partire da quel neo è un sottile ritratto di un’epoca, vista attraverso il ricordo che, come ammette l’autrice, può giocare brutti scherzi.
Tra buio e luce
Se il neo viene visto come segno distintivo, in un primo tempo occultato e oggetto di scherno, di curiosità, di diffidenza, finisce per diventare un vero elemento identitario, che a lei piaccia o no: «quella mattina mi ero svegliata con una vita diversa, un corpo diverso, senza sapere fino in fondo in che cosa mi fossi trasformata». Quando avviene questa scissione è chiaro come il mondo sia diviso tra buio e luce e come questi emisferi siano le opposte questioni della vita: chi dovremmo essere e chi siamo per davvero: «Potevo vedere da lontano e farmi sorprendere dalla chioma degli alberi e dall’infinità di foglie che la componevano, dai contorni delle nuvole nel cielo, dalle sfumature dei fiori, dal tracciato precisissimo delle mie impronte digitali. La mia vita si divideva in due universi: quello mattutino, costituito soprattutto da suoni e da stimoli olfattivi, ma anche da colori nebulosi, e quello pomeridiano, sempre liberatorio ma anche di una precisione stupefacente».
Il volto vivo e mutevole della verità
Franz Kafka disse: «È difficile dire la verità, perchè ne esiste sì una sola, ma è viva e possiede pertanto un volto vivo e mutevole». Per Gregor Samsa, il celebre protagonista kafkiano, metro di paragone per la protagonista di Nettel, questa verità mutevole è quanto mai vera: la mattina risvegliatosi dai suoi sogni terribili, si ritrova mutato in un grosso insetto, ha la percezione che sia la sua realtà interiore a diventare il paesaggio visibile agli occhi di tutti e risibile di una interpretazione. Quella verità che cambia e che ha un volto vivo è necessaria alla bambina che viene vista dalla madre come uno scarafaggio, che specchiandosi intravede il neo bianco, che trasuda infelicità e per questo i bambini, che «sono molto sensibili», esaurita la curiosità, la evitano. Mutare è possibile, ma in cosa, come e quando? Se la sua giovane vita è il perimetro in cui il chiaroscuro scandisce gli anni, frazionando sempre il prima e il dopo, il corpo diventa sempre il luogo di una rivendicazione, che sia quella in cui arroccarsi, in cui spingersi a provare; sia quella in cui si subiscono le scelte altrui. La libertà sessuale nella quale viene cresciuta finiscono per rendere il sesso qualcosa di divisibile tra il comico e il politico. L’attesa, “l’unica consolazione” che i medici diedero ai suoi genitori, è l’unità con cui misura il tempo e quel tempo non fa che dividere, prima e dopo, infanzia ed età adulta, ciò che c’è dentro da ciò che c’è fuori. «Con quel cerotto dovevo andare a scuola, riconoscere la maestra e i contorni del materiale scolastico, tornare a casa, mangiare e giocare per una parte del pomeriggio. Intorno alle cinque qualcuno si avvicinava per avvisarmi che era ora di toglierlo, e con quelle parole, mi restituiva al mondo della limpidezza e delle sagome nitide. Gli oggetti e le persone con cui avevo interagito fino a quel momento mi apparivano in modo diverso».
L’infanzia? Nessun incanto
Se Gregor Samsa non rivela mai al lettore in quale insetto sente di essersi trasformato, la protagonista di Nettel ne è certa «capii quasi subito che si trattava di uno scarafaggio. Lui si era trasformato mentre io lo ero per decreto materno, se non dalla nascita»; intravedendo in lei quell’insetto finisce per condurre sua figlia ad un’unica speranza, quella di diventare invisibile, per gli altri e anche per se stessa. Tutto il romanzo è una confessione, ma anche un viaggio a ritroso nei ricordi di una bambina che tra le scapole racchiude la propria esistenza, in una postura che ricorda i sogni infranti e che lascia presagire una trasformazione, «mia madre sembrava così ossessionata da quella mia tendenza a incassare la testa nelle spalle da arrivare a trovarle un soprannome o “nomignolo affettuoso” che, secondo lei, si adattava perfettamente al mio modo di camminare. Scarafaggio». Il suo è un sottile ritratto che emerge dai ricordi d’infanzia, eppure Nettel ci mette in guardia: «per me il presunto incanto che molta gente attribuisce all’infanzia è uno scherzo giocato alla memoria […] sono convinta che nessuna infanzia possa essere del tutto piacevole», più cerchiamo diricordare, più nascondiamo il dolore che quei ricordi si portano dietro: “non è doloroso ricordare una situazione che per fortuna non è più tale, ma semplicemente riconoscere ciò che abbiamo provato in precedenza, ed è questa cosa che niente, neppure un’amnesia è il migliore degli analgesici, può cambiare. Il dolore rimane nella nostra coscienza come una bolla d’aria con l’interno intatto, in attesa di essere evocato o, nel migliore dei casi, tirato fuori”. La verità cui alludeva Kafka e quella che ci racconta Nettel passa necessariamente per due aspetti: un corpo in cui la giovane donna nasce e del quale si fa scudo, un corpo inadatto a percorrere rivoluzioni sessuali e di affrancamento dalla propria famiglia che non sente suo e quello stesso corpo che è, sì, esattamente come lei lo vede, ma che diventa strumento di formazione sia nella sua ostilità a piacere, sia nella sua crescita e complicazione.
Il mondo diviso in due
È lei che sdraiata su quel lettino ripercorre la sua storia cercando un nesso tra quel corpo dotato di un neo bianco sulla pupilla e quella donna sospesa in un presente personale. È lei che guardando gli altri si vede riflessa, vede la costanza degli altri a chiederle una ragione, a curiosare tra i suoi occhi, ma è quello stesso neo che stabilisce il suo ritmo e crea un’identità, anche quando sarà solo una cicatrice dietro la quale il suo mondo continuerà ad essere diviso in due, anche a trasformazione avvenuta, la verità viva e mutevole di Kafka si accompagnerà ad una mutazione senza clamori.
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