“L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi” di Giovanni Di Marco, attraverso una vicenda inventata e ambientata nella Sicilia dei primi anni Ottanta, punta il dito – evocando precise responsabilità a carico di Giovanni Paolo II – contro i tentativi estremamente lacunosi, parziali, dunque colpevoli, della Chiesa e dei suoi vertici si sono spesi, nei secoli, per insabbiare il fenomeno dei sacerdoti pedofili. Un romanzo, quello di Giovanni Di Marco, che mostra il talento e il cuore dell’autore, grazie a uno stile e una lingua sempre coerenti e credibili, e alla giusta dose di suspense, che non penalizza il ritmo
“Chi tene mamma non ghiagne” (chi ha la mamma non piange). Così recita un antico adagio napoletano che sintetizza perfettamente, nella sua estrema semplicità, il trauma dei traumi. Tra i dolori per antonomasia, infatti, la perdita della mamma, soprattutto se in tenera età, rimane il più segnante. Lo testimonia, con la sua piccola epopea, il protagonista de L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi (432 pagine, 20 euro), romanzo d’esordio di Giovanni Di Marco per Baldini+Castoldi editore.
L’angolo di deriva
Quando hai sette anni e la nascita di tuo fratello, da evento gioioso, si trasforma in un incendio che devasta la famiglia strappandoti tua madre, l’ustione con cui ti marca è di terzo grado. Sopravvivi, ma nulla sarà mai più come doveva o poteva essere.
La condizione di orfano innesca una serie di meccanismi, attuati consciamente o inconsciamente a livello individuale e sociale, che possono sortire sulla psicologia del soggetto effetti squilibranti anziché compensativi. Può verificarsi, poi, che il luogo e il tempo di nascita, l’estrazione sociale e la cultura familiare – i fattori, cioè, che sono determinanti nella costruzione della personalità di tutti gli individui – per via di tale distorsione amplifichino l’ampiezza dell’angolo di deriva. Cosa accade, infine, se oltre ad una tanto pesante penalità di partenza, ci si trovi a patire, incolpevolmente, le spregevoli perversioni di soggetti al di sopra di ogni sospetto?
La supplenza del ruolo materno
Millenovecentottantuno. Castelverde, Sicilia.
Il genitore superstite, zii, parenti prossimi e affini, vicini di casa, paesani, insegnanti: una intera comunità di adulti, espressione dello specifico contesto storico-geografico in cui si ambientano i fatti narrati, si costituisce intorno a Tonino per gestire, a vario titolo, la supplenza del ruolo materno. Ciascuno, naturalmente, nell’adempimento del compito, agisce dominato dalla propria indole e influenzato dalle proprie capacità e background. Al padre, nel rispetto della consolidata struttura patriarcale in cui la vicenda si sviluppa, spetta esclusivamente il compito di provvedere alle necessità economiche dei figli attraverso il lavoro. La cura materiale quotidiana di Tonino è affidata alla zia presso la quale è collocato, stralciato dal resto dei fratelli. Più pasticciato ancora il fronte dell’istruzione scolastica. Un deleterio pietismo paralizza gli insegnanti, disinnescando ogni doverosa pretesa di obbligarlo a studiare. Nella palude stagnante della commiserazione, strategia collaudata di disimpegno, ostentata come dovere cristiano, c’è un’unica figura che mima la mano ferma di una madre: Tania, la giovane vicina, ex emigrante rientrata dalla Germania per finire nella rete di gelosie di un marito culturalmente distante anni luce. Tentando di contenere e finalizzare, attraverso complicità e vigile ascolto, le sregolatezze con cui Tonino, dotato di precoce intelligenza e acuta capacità di autoanalisi, risponde alle avversità, sarà al suo fianco fino all’epilogo.
Levità, ironia ed effetto amarcord
Un romanzo nella cui economia Tonino è l’indiscusso elemento centrale. È lui il pignone dell’elica alla quale accosto la struttura della storia. Eppure, ci sono almeno altre due pale che contribuiscono al suo moto propulsivo. La prima, leggera come petali di rose, sono gli anni Ottanta. La seconda, che ha la consistenza pungente delle spine, è la questione dei preti pedofili.
Gli anni ottanta, ormai mitici, si ramificano nel testo alla guisa di divertenti infiorescenze che disseminano le pagine di sprazzi di levità e ironia. Tocchi spassosi sono, ad esempio, il riferimento alla parabola calcistica della nostra nazionale di calcio nei due successivi mondiali della decade e la parata di stelle del campionato, realizzata citando l’iconico album di figurine Panini. Ancora i richiami a programmi e serie televisive che hanno contribuito alla costruzione dell’immaginario di un’intera generazione o, infine, i cenni ai brani musicali indiscussi colonne sonore del decennio. Particolari funzionali alla realizzazione di uno scenario impeccabile sotto il profilo della verosimiglianza storica. Eppure, vi scorgo anche, quasi palese, il desiderio dell’autore di indulgere ad un intimo, personale trastullo. Un omaggio-biografia canta-autoreferenziale, un rimando specifico agli anni della sua giovinezza, al periodo più significativo della sua formazione. Comunque sia, il risultato è decisamente ottimo, tanto per quanto riguarda l’aspetto formale, visto che tutti gli excursus, diluiti ad arte nel racconto, si traducono in macchie di colore che rafforzano la scorrevolezza della scrittura, tanto per l’aspetto emozionale e di godibilità: suscitare nel lettore un piacevole effetto amarcord ad alto tasso di identificazione, è un colpo che Di Marco ha messo a segno con punteggio pieno.
L’orrore in sacrestia, il bubbone della Chiesa
Altro pathos, e altro intento, naturalmente, sorreggono l’argomento spinoso. Tonino, tocca dirlo in maniera brutale dato che non c’è anestesia abbastanza efficace da edulcorare una nefandezza del genere, è oggetto delle attenzioni morbose del parroco. Solitudine, terrore, disistima, confusione. Sono le emozioni più banali che riesco ad ipotizzare siano insorte, come conseguenza della turpe violenza, a dilaniare il ragazzino. Ben più acuto di me Giovanni Di Marco nello scavo introspettivo, abilissimo nel far calzare al lettore le scarpe della vittima. Soprattutto animato – è questa l’idea che mi sono fatta riflettendo sulla determinazione e sulle modalità con cui maneggia l’argomento – più che dall’orgoglio da narratore di tessere una trama avvincente, da una necessità di denuncia. Ingegnoso e funzionale l’escamotage cui ricorre per allargare il discorso dal particolare della vicenda singola di Tonino, che si consuma nella sacrestia di una canonica di provincia, al generale del marcescente bubbone che ammorba seminari, monasteri e parrocchie ad ogni latitudine geografica e gerarchica. Marco, fratello di Tania, seminarista in Austria, confessa alla sorella di essere anch’egli nella terribile condizione del giovane siciliano (qui è possibile leggere un estratto del romanzo). La fitta corrispondenza epistolare tra i germani è, dunque, l’intelligente espediente con il quale l’autore arriva al punto, rendendo conto al lettore dello stato dei fatti. Lettera dopo lettera si delinea la storia dei tentativi estremamente lacunosi, parziali, autoconservativi – dunque colpevoli – in cui la Chiesa di Roma e i suoi vertici si sono spesi, nel corso dei secoli, per insabbiare il fenomeno e proteggere i colpevoli. Giovanni Di Marco non resta certo sul vago. Non tradendo la sua vocazione giornalistica, evoca precise responsabilità a carico di Giovanni Paolo II. Non tocca a me il compito di sciogliere il nodo circa l’odio di Tonino per i polacchi accennato nel titolo, posso solo rimarcare la coincidenza che di tale nazionalità fu il defunto pontefice.
Cosa resterà di questi anni Ottanta
L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi è un romanzo scritto in maniera esemplare: fluida e accattivante. Ottima la gestione degli elementi formali: lo stile e la lingua sono sempre coerenti e credibili. Ineccepibile quella delle componenti narrative: la segmentazione dei singoli tranci di trama e il conseguente montaggio, da manuale. Eseguiti assecondando le esigenze del climax senza dispersione di energia, neutralizzando eventuali cedimenti di attenzione del lettore e alimentando nella giusta dose la suspense senza penalizzare il ritmo.
“Il dolore nascosto giù nell’anima”, “Una verità dentro una bugia”. Così cantava Raf, rispondendo all’interrogativo su cosa sarebbe rimasto di quegli anni ottanta dei quali fu protagonista canoro assoluto.
Il dolore nell’animo e la verità dentro bugie, se riferiti rispettivamente a Tonino e alla Chiesa, valgono anche per questi altri anni ottanta, attraversati grazie alla penna di Giovanni Di Marco. Ad essi aggiungo il talento, l’intelligenza e il cuore dell’autore siciliano. Solo uno scrittore con tale bagaglio poteva firmare una storia tanto realistica, avvincente e toccante.
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