La morte inaccettabile di una figlia, Yinka, con cui il rapporto era comunque gelido da molto tempo. Una madre, Moijsola, che prova a cercarla nei suoi luoghi, ricerca che diventa una ragione per andare avanti. In “Un lutto insolito” di Yewande Omotoso una mappa che racconta senza mistificare il destino di nessuno
Quella sera il telefono si era messo a squillare, Mojisola stava lavando i piatti e forse non stava pensando a nulla, di certo nulla aveva fatto presagire che all’altro capo del telefono ci sarebbe stato un poliziotto. La sua voce doveva metterla al corrente che sua figlia, Yinka, era morta. Il suo corpo era stato rinvenuto nel suo appartamento di Johannesburg dalla padrona di casa: Yinka a ventriquattro anni si era tolta la vita «di mano propria». È proprio questa l’espressione che il poliziotto ci teneva ad usare, certa che si trattasse di «una combinazione di parole» presa da un libro. Per Mojisola «parlare faceva male» e ascoltare da una fredda cornetta la voce di uno sconosciuto dire «di propria mano», rendeva «impossibile rispondere»; Mojisola è una donna che da sempre, «apriva la bocca così di rado», tanto che da bambina «certi suoi compagni credevano fosse balbuziente, come si diceva in giro. Ma Moijsola non balbettava, non lo aveva mai fatto. Aveva imparato, invece, molto presto, a mordersi la lingua». Tutto intorno a lei sembrava aver perso ritmo: «quando il poliziotto aveva iniziato a parlare Moijsola avrebbe voluto interromperlo per dirgli “Ma sto arrivando”, come se non fosse la madre di un figlio morto, bensì, una madre lenta, un po’ in ritardo, ma in viaggio». Il rapporto con Yinka, negli anni si era ridotto ad un ridicolo silenzio, le due donne faticavano a rivolgersi la parola e il rapporto non era mai stato facile sin da quando Yinka era venuta al mondo, tuttavia questo non poteva impedire che alla notizia della morte di un figlio, una madre non si desse pace. «Le era mancata l’aria, ma solo per pochi secondi, poi era tornata a fluire portando con sè una rabbia da cui nessun mondo si sarebbe salvato […] Ora aveva bisogno di scappare, andar via, ma lontano – doveva fuggire dalle notizie, fuggire dalla possibilità che Yinka Owolabi fosse morta di propria mano».
Un nuovo inizio da una morte
In un’intervista rilasciata al Daily Maverick, Yewande Omotoso spiega come dietro a Un lutto insolito (304 pagine, 17 euro) – tradotto da Emilia Beighi per 66thand2nd – ci sia la sua intenzione di indagare come da una morte, da un suicidio ci possa essere un nuovo inizio: «La fine di qualcuno può essere una catarsi per l’inizio di un altro», dice l’autrice.
Una corsa col cuore a pezzi
Yewande Omotoso (qui una sua intervista) ci porta dentro al personaggio di Mojisola che non riesce a far fronte ad uno smarrimento cruciale e l’unica cosa a cui pensa è fuggire, perchè ora sa che esiste un’epoca prima e dopo Yinka, un’epoca in cui non si è più madri o lo si è infinitamente, ma si diventa ciò che neanche un dizionario è in grado di raccontare. Moijsola esce di casa, vuole fuggire da quella realtà dolorosa, vuole mettersi a correre e gettate le sue calzature nella spazzatura, dopo qualche bel respiro, torna su Main Road: «Corse per tutta Città del Capo. Corse per più di tre ore e avrebbe continuato a correre se Titus (suo marito, ndr) non avesse mandato la polizia a cercarla. La trovò una pattuglia lungo Beach Road, fradicia, i piedi sanguinanti, il cuore a pezzi». A questo punto per trovare una pace fittizia, Mojisola si precipita a Johannesburg «come se pensasse ancora di poter cancellare tutto, tornare indietro nel tempo e trovare sua figlia seduta all’ingresso che le dice sorridendo: Perché ci hai messo tanto, mamma?”. Ma all’ingresso Yinka non c’è».
Una frattura nel tempo, un nuovo scenario
È nella ricostruzione dei fatti che Moijsola trova una ragione per andare avanti, prendere possesso dei luoghi di Yinka a partire dal suo appartamento angusto, scoprire chi sono le persone che l’hanno frequentata, soprattutto negli ultimi tempi, a partire dalla padrona di casa, una donna che ha più lati in ombra e dalla quale coglie di potersi fidare solo dopo molti giorni di permanenza. È a Johannesburg che la sua memoria sembra riacquistare vigore ed è così che le torna in mente la passione di Yinka per il disegno, quei disegni li aveva dimenticati, «dimenticati come si dimentica di proposito quello che non si osa ricordare», una passione che «man mano che cresceva» assumeva «un carattere più ossessivo», la madre sorprendeva la piccola Yinka «come incantata davanti al foglio, con la matita stretta in pugno così forte da non riuscire a togliergliela di mano». Da questa frattura nel tempo si apre un nuovo scenario, capace di riportarla ai tempi in cui Yinka era solo una bambina «bizzarra, come stropicciata, sgualcita». In quel tempo, Moijsola si è sentita inadeguata: «La bambina era un fenomeno, una creatura che non faceva altro che strillare, mangiare, cagare, tenuta assieme da pelle e giunture. A volte zia Modupe prendeva Mojisola e le diceva, “Sta attenta, bada di non amarla troppo”. Ma era amore? Mojisola si sentiva più che altro invasa, colonizzata, completamente e irreversibilmente», ripartire dall’inizio per trovare una ragione o una colpa. Questa è la chiave di lettura di un rapporto che tra madre e figlia ora si ciba di assenza ed è proprio nel buio che Mojisola vuole muoversi, che Omotoso la colloca, perchè dentro quello stesso buio ritrovi Yinka, riprenda a parlarle e dentro quel buio riesca a rivedersi.
Un dialogo dopo il lutto
E come spiega Yewande Omotoso in quell’intervista, lentamente ad uscire dal guscio non è Yinka, che resta un personaggio misterioso e senza più la possibilità di spiegarci le sue intenzioni, ma è Mojisola, che in tutto questo tempo si è limitata a vivere, accettando silenzi, moderazioni, separazioni. Così a Johannesburg non fa altro che «ripercorrere i passi di sua figlia, seguirne le tracce», il suo intento è capire meglio una donna che ormai se ne andata. Nonostante questo dialogo ricominci alla luce di un lutto, Mojisola «non riesce a desiderare un mondo in cui quell’essere straordinario non sia mai esistito, nemmeno per risparmiare a sé stessa un dolore talmente integrato nel suo corpo che dovrebbero farla a pezzettini – metterla in un tritacarne per levarglielo di dosso». Questo è il lavoro che Yewande Omotoso ha racchiuso in questo romanzo: un lutto definito insolito, la morte di una figlia, il conflitto insabbiato, la rotta perduta di due coniugi, una mappa che racconta ma non mistifica il destino di nessuno, tutti strumenti inaspettati da cui una scintilla può nascere per leggersi dentro. Le parole scelte da Yewande Omotoso, scelte accuratamente, sono taglienti, agghiaccianti, ma anche tanto veritiere: «È venuta a recuperare sua figlia, a tirarla fuori dal suo nascondiglio. E cosi facendo ha recuperato se stessa. È strano avere la sensazione di conoscere Yinka molto meglio da morta di quanto la conoscesse da viva. Ancor più strano è sapere che ha dovuto perdere sua figlia per ritrovarsi». Quel senso di smarrimento in cui si trova Mojisola a partire dalla prima pagina, è in realtà un colpo di coda, ha smarrito la strada molto tempo prima ed è finita lontana da Yinka e da se stessa, e come si legge nel romanzo, si può perdere qualcosa, «qualcosa di sfuggente, che si può smarrire al buio. Lo puoi perdere in un attimo senza neppure accorgertene».
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