Sguardo onirico e prosa ancestrale nell’esordio narrativo del poeta siciliano Giuseppe Nibali. In “Animale” dominano la distanza fra un padre e un figlio, tra presente e passato, tra attitudine alla vita e all’amore, da una parte, e apatia e inadeguatezza dall’altra…
Una prosa evocativa, lirica e ancestrale, figlia anche dell’attività poetica dell’autore. Uno sguardo onirico. Un’ossessione per gli animali. Una terra, la Sicilia, che si sente tutta, concretissima e leggendaria, mai macchiettistica, e che lascia il segno a ogni passo. E un rapporto padre-figlio, che sprigiona riflessioni, immedesimazioni, dolori. Sono ridotte le dimensioni del romanzo di debutto nella narrativa del catanese Giuseppe Nibali, ma conta davvero poco. Il numero di pagine è tutt’altro che esorbitante, ma sentirete addosso per molto tempo il riverbero della prosa di questo nuovo autore siciliano – prosa in cui buio, solitudine e morte si intersecano lievi e inesorabili.
Dall’Emilia alla Sicilia
Nibali che si affida a un personaggio suo omonimo, Giuseppe – cavalcando la moda dell’autofiction, sottolineando che non è lui, lasciando il dubbio che racconti di sé, in fondo, o chissà, boh, è l’unico aspetto che non ci convince di tutta questa faccenda – lo lascia tornare dall’Emilia alla Sicilia, precisamente a Giardini Naxos, al capezzale del padre, Sergio, ex professore di filosofia, colto da un ictus e caduto da uno scooter. In Animale (139 pagine, 16 euro) di Giuseppe Nibali, pubblicato da Italo Svevo (come già altri talentosi siciliani, Orazio Labbate e Veronica Galletta), non c’è il semplice racconto di un rapporto complesso e tormentato fra un padre e un figlio, ma l’essenza della distanza, il lunghissimo solco scavato fra due anime, che rievocano gli attimi che li hanno messi alla prova e allontanati. Sappiate che c’è in giro un giovanotto di poco più di trent’anni che ha covato una storia che sembra scritta da un autore ben più consumato.
La differenza
Figurine Panini e metafore, suggestioni e sprazzi di bei ricordi («Sì, gli anni dell’innocenza prima che il diluvio si portasse via tutto», azzarda il padre) si intrecciano alle constatazioni di un figlio che quasi non riconosce più il padre («Il Sergio che ha davanti confonde i nomi, le persone, i ricordi e ora si fa muovere il braccio destro come se non fosse il suo, disegnando grandi cerchi nell’aria»), riconoscendogli comunque la passata attitudine alla vita e all’amore, quella che lui non ha mai avuto, forse mai avrà.
E lui? Lui aveva mai provato un sentimento così? Qualcosa che fa perdere il senno, che riempie di problemi, qualcosa da maledire e benedire allo stesso tempo? Giuseppe si chiede se ha mai imparato veramente. Certo, ha letto, ha studiato, ha frequentato l’università, dove ha appreso delle tecniche e dei nomi, ma mai delle pratiche. Suo padre, invece, sapeva amare, parlare, discutere, conosceva le cose. Suo padre era quello che aveva vissuto.