Si conclude il mini ciclo iniziato con Simenon e Chandler. “Santuario” di Willliam Faulkner è un dramma – spacciato dall’autore come un’opera scritta solo per motivi economici – che ci ricorda come il modernismo abbia contribuito alla storia della letteratura, contro i nostalgici della scrittura come semplice veicolo di storie. E che la letteratura è la formula che risolve il conflitto tra emozione e pensiero
Urgenze
Squarci di noir/3. Faulkner e l’emozione universale
E siamo giunti a Sanctuary. Avrei potuto scegliere tanti libri di un gigante come Faulkner, Luce d’agosto ad esempio, ma anche Mentre morivo o Non si fruga nella polvere o anche il minore ma folgorante Le palme selvagge. Del resto, Sanctuary è il romanzaccio scritto per far soldi, così come lo spacciò artificiosamente Faulkner.
Eppure è Sciascia che mi guida verso questo capolavoro, quando racconta della voglia che aveva di poterlo avere tra le mani da ragazzo, dopo che Vittorini e Pavese gli avevano, si potrebbe dire, rivelato la narrativa americana (Luce d’agosto fu tradotto proprio da Vittorini).
Il dramma di Sanctuary ha inizio quando l’avvocato Horace Benbow, vagando tra i boschi, è costretto ad entrare in una distilleria clandestina da Popeye. Tutte le scene iniziali dei libri di Faulkner sono impressionanti, solenni, maestose, mitopoietiche, anche e forse proprio perché ci propongono diseredati, vagabondi, uomini piagati. (A me questo incipit ricorda, a proposito di solennità e di mito, quello de La valchiria quando Siegmund, in preda alla furia della tempesta, raggiunge la casa di Hunding, da cui l’intero dramma avrà inizio – è di questi giorni la rituale trasmissione alla radio di tutto il Ring wagneriano dal tempio teatrale di Bayreuth).
La storia di Santuario penso la conosciate: Temple Drake, una ragazza di buona famiglia ma pronta ad ogni ribellione finisce nella rete degli stessi distillatori clandestini dell’incipit. Si innesca così un sordido conflitto nutrito di violenza, di vendetta, di tradimento. Temple finisce stuprata con una pannocchia dal boss impotente Popeye. Il crimine viene poi per errore imputato ad un altro membro della banda, linciato e bruciato dalla folla mentre Popeye, artefice di ogni male e vittima stessa dell’ubiquità del male, viene catturato e condannato per l’unico crimine che non ha commesso. Trama terribile, macabra, violenta.
Ma i libri di Faulkner non hanno una trama in realtà, ne hanno mille, sono cosmogonici: la realtà viene rifondata nel ricordo ormai perduto, annebbiato, scomposto, di un’età dell’oro che non sembra alla fine mai esserci stata. Faulkner ha ricostruito un intero mondo, quindi, e basti per questo il rimando alla contea immaginaria di Yoknapatawpha dove ambienta intere saghe familiari: un luogo sognato, spesso come in un incubo, eppure assolutamente vero. Di ciò si è scritto tanto e io non sono in grado di aggiungere analisi nuove e importanti.
Mi pare doveroso però, vittorinianamente, ricordare quanto il Novecento modernista, diciamo così, abbia contribuito alla storia della letteratura, contro i nostalgici della scrittura come semplice veicolo di storie. Che poi chi più di Faulkner ha prodotto storie raccontando un’unica grande storia? Scusate se un po’ mi infervoro, ma io ho sempre pensato che la creazione, letteraria o artistica che sia, porti sempre con sé una forma di impegno, perché sono i fruitori, oltre all’autore, che ne determinano i significati, i livelli di senso. E, in questo modo, partecipano all’esperienza creativa: cosa ci può essere allora di più impegnato?
Un pomeriggio di fine agosto, dovevo portare il mio cane a fare la sua passeggiata. Era un cane un po’ irrequieto, e lo portavo di conseguenza sempre in luoghi isolati e tranquilli. Lui in macchina mi sedeva a fianco e discutevamo con lo sguardo, sul clima, sugli amici che incontravamo, e progettavamo sempre nuove escursioni per i giorni successivi. Spesso, una volta libero nei prati, spariva per un po’. All’inizio mi preoccupavo, ma poi capii che comunque tornava, sempre. Mi portavo allora dei libri, da leggere durante le sue fughe. Un giorno presi proprio Sanctuary, per rileggere alcune delle pagine che più mi avevano colpito. Quel giorno il cane tornò subito e, mentre leggevo, si mise a guardare l’orizzonte a lungo. Decisi di leggere ad alta voce, anche per lui.
Mi disse ad un certo punto: bello questo libro, quante cose mi sta spiegando.
La letteratura, quella vera, difficile, profonda, è nello stesso tempo la forma di più pura e semplice emozione universale, ed è quella formula che risolve appunto il conflitto tra emozione e pensiero.
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