I “sette libri per l’estate” di… Laura Pugno

Saggi, dialoghi, memoir, testi ibridi, riflessioni… libri belli. I sette suggerimenti di lettura di Laura Pugno – autrice di romanzi, poesia, saggi e testi teatrali – non percorrono strade molto battute. Libri tutt’altro che scontati, ma ragionati, sviscerati e offerti ai lettori della nostra rubrica (qui tutte le puntate) più amata

È pienamente e ferocemente estate, ferocemente come poche altre volte in Europa e altrove, estate crudelmente indimenticabile. Forse nuotate in mare davanti a un’isola dove nidificano le tartarughe, e intravedete tra sopra e sotto la superficie dell’acqua la forma corazzata, arcaica e allo stesso tempo indifesa, di una Caretta caretta; forse siete in giardino o da qualche parte in campagna, e una mantide religiosa si posa sul tavolo coperto dalla tovaglia di plastica e dalle foglie scosse dal vento, muovendo leggerissimamente, in modo quasi invisibile, quelle sue zampe sottili, il corpo verde brillante. O forse siete a casa, bevete un caffè prima di andare in ufficio, e osservate la maggiorana, il rosmarino, il timo limone mezzi morti dal caldo, giusto ancora qualche foglia che resiste.

“Sulla pista animale” di Baptiste Morizot (Nottetempo) 

Ed è così che, ovunque voi siate, già potete praticare il primo dei sette di questi consigli di lettura per LuciaLibri, aprendo le pagine di Sulla pista animale di Baptiste Morizot (Nottetempo, 2020, traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri), scrittore e ricercatore in filosofia all’Université de Aix-Marseille. Per Morizot, lo studio tra le relazioni tra l’umano e il non umano è un lavoro sul campo, una pratica a cui in realtà nessuno sfugge e che prende il nome antichissimo di pistage, lettura di piste, decifrazione di tracce: ma per affinare quest’arte, o divinazione in cui i segni sono lasciati dai percorsi di altre intenzionalità, umane e non umane, non è necessario uscire di casa e recarsi, come si suole dire, nella natura, perché, semplicemente, la natura è ovunque a iniziare dai nostri corpi, e ovunque siamo, anche nella più fitta giungla urbana, ci siamo già. Ovunque siamo tra altri esseri viventi, in grado di inforestarci, in grado di entrare e fare entrare in relazioni trasformative: “Bisogna sperare che un diplomatico andato a inforestarsi presso gli altri esseri viventi ritorni trasformato, tranquillamente inselvatichito, lontano dalla ferocia fantasmatica attribuita agli Altri. Che colui che si lascia inforestare dagli altri esseri viventi ritorni leggermente modificato dal suo viaggio da licantropo: un mezzosangue, a cavallo tra due mondi. Né svilito né purificato, semplicemente altro e un minimo capace di viaggiare tra i mondi, e di farli comunicare, per lavorare alla realizzazione di un mondo comune”. La pratica del pistage, da cui può iniziare quel complesso lavoro di negoziato tra i viventi a cui Baptiste Morizot dà il bel nome di diplomazia, può iniziare nel più umile dei modi: mentre, posata la tazza di caffè, subito prima di uscire – siete, ve ne rendete conto, in realtà già in ritardo, che ne è stato del tempo assorbito dalla rêverie? –  gettate uno sguardo, come suggerisce Morizot, ai lombrichi che fanno per voi il lavoro del compostaggio nel secchio apposito. Vi rendete conto che sono osservabili, che hanno abitudini e creano cambiamento, magari ricordate anche che Charles Darwin, prima di morire, ha dedicato loro il suo ultimo saggio sulla Formazione della terra vegetale, improvvisamente mettete a fuoco che anche quella tra voi e i lombrichi è una forma di convivenza, come tra tutti gli esseri.

Morizot

“Poesia come ossigeno” di Antonella Anedda ed Elisa Biagini (Chiarelettere)

Ed è proprio a partire dai lombrichi, da questa vita minuta, orizzontale come quella dei coralli, che ci parla di poesia, la poesia che può parlare di ogni cosa, la scrittrice e poetessa Antonella Anedda in un libro misto, prosimetro, ibrido, un po’ confessione-conversazione, un po’ saggio, un po’ antologia, scritto a quattro mani con un’altra autrice di poesia nostra contemporanea, Elisa Biagini: una lunga intervista curata da Riccardo Donati che è stata pubblicata nel 2021 da Chiarelettere e che porta il magnifico titolo di Poesia come ossigeno, e che è già subito il secondo di questi sette consigli di lettura. In questo dialogo, perché si tratta di un dialogo a tre che possiamo seguire come se vi fossimo presenti anche noi, Elisa Biagini, parlando del “presente continuo” del nostro tempo come cattiva infinità, fa emergere con forza la questione del paesaggio e dell’emergenza ecologica; mentre Antonella Anedda precisa che una risposta della poesia alla perdita, anche alla perdita del paesaggio, che assedia da ogni lato, può consistere “nell’opporre alla generalizzazione l’esattezza. Non alberi, ma lecci, roveri, faggi”. Per Elisa Biagini, “il paesaggio è quello che riesce a crescere dove non ti saresti aspettato, e la poesia fa spesso questo, no?” E Antonella Anedda, riflettendo con quanta cura sia necessario trattare le parole, perché, ci dice, “è come trasportare cose infiammabili”, ci ricorda che “ecologia ed economia sono strettamente collegate. La prima è una parola relativamente moderna, la seconda antichissima, ma hanno una radice in comune, òikos, casa”. Ecco, ci dice Antonella Anedda, “l’ecologia della parola potrebbe incontrare un’economia diversa, che gestisce il nostro ambiente-casa senza per forza coniugarsi con lo sfruttamento. Trattare la pagina come un paesaggio e il paesaggio come una pagina”. E il foglio, ci ricorda ancora Anedda, “è il territorio dove le parole di un altro hanno germogliato”. Certo, commenta Elisa Biagini, “se parliamo di ecologia pensiamo all’immagine della lingua-spazzatura, alle scorie della lingua e alla necessità di riciclare la lingua: l’atto stesso della scrittura è un lavoro di filtraggio del mondo accettandolo con le sue impurità”. E, da traduttrice qual è, aggiunge: “È anche riattraversando lingue altrui e la propria che si può effettuare una forma di riciclaggio. Questa nostra lingua è una lingua affaticata, appesantita, carica di scorie sia storiche sia sociali”.

poesia

“Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto” di Donna Haraway (Nero)

A questo punto, dopo queste parole – impurità, scorie, riciclaggio – il terzo consiglio di lettura, e non potrebbe essere diversamente, sorge direttamente dalla terra, dal compost vivente, non come una schiera di antichi guerrieri di terracotta ma come uno sciame di farfalle tra gli alberi all’imboccatura di una grotta sotterranea, ed è Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (edizioni NERO, collana Not, 2019). Il saggio narrativo della visionaria e istrionica pensatrice femminista Donna Haraway, che invita a costruire nuove trame di relazioni alternative alle antiche, fino a ibridarsi di specie in specie per poter sopravvivere. Nuove trame come nuove forme di pensiero, aggrovigliate, connesse, annodate come uncinetto, ricamo, crochet, come figure di filo. “Lavoro con le figure di filo – scrive Haraway nella sua lingua continuamente accesa, vero materiale infiammabile secondo la definizione di Antonella Anedda – come se fossero un tropo teoretico, un modo per com-pensare insieme a un mucchio di compagni nella simpoiesi del tessere, dell’annodare, del filtrare, del tracciare e del setacciare. Lavoro dentro e con il mondo FS come se fosse una forma semiotico-materiale di compostaggio, un modo di fare teoria nel fango, di stare nel disordine. Gli esseri tentacolari non sono figure incorporee: sono celenterati, ragni, esseri dotati di dita come gli umani e i procioni, sono polpi, meduse, sfarzi neurali, entità fibrose, esseri flagellati, fasci di miofibrilla, grovigli infeltriti microbici e micotici, rampicanti che si allungano, radici che si gonfiano, viticci che si arrampicano e si protendono in avanti. Tentacolari sono anche le reti e i sistemi di rete, le creature dell’information technology che vivono dentro e fuori dal cloud. La tentacolarità è una vita vissuta lungo le linee – tantissime linee – e non nei punti, non nelle sfere. “Gli abitanti del mondo, creature di ogni tipo, umani e non umani, sono viandanti”; le generazioni sono come “una serie di sentieri intrecciati”. Tutte figure di filo”. Necessarie per poter andare avanti, ancora, in un mondo leso e vitale, in cui ogni forma di sopravvivenza – fossero anche le nuove soggettività, le Camille-farfalle riparatrici cui Haraway dedica l’ultima parte del libro, che propone una gemmazione narrativa della sua teoresi – non può fare altro che restare a contatto con il problema, onorare l’intensità e la presenza della ferita anche lì dove non sembra che esista cura possibile, o invece che sì, esista ma non contempli più la nostra di esistenza, che sia come soggetti singoli o come specie. Nel mondo di Donna Haraway nessuna specie può più pensarsi da sola, ogni pensiero è pensiero della relazione.

Chthulucene

“Il fungo alla fine del mondo” di Anna Lowenhaupt (Keller)

E dopo aver reso lode all’avventuroso coraggio delle traduttrici di Haraway, Claudia Durastanti – autrice de La straniera e nuova curatrice del marchio La Tartaruga per La Nave di Teseo – e Clara Ciccioni, saremo ormai pronti per il quarto consiglio di lettura, Il fungo alla fine del mondo dell’antropologa americana Anna Lowenhaupt Tsing (Keller, traduzione di Gabriella Tonoli, 2021), che ci ricorda che –  almeno così si racconta – “quando nel 1945 Hiroshima fu distrutta dalla bomba atomica, la prima forma di vita a spuntare in quel paesaggio raso al suolo fu un fungo matsutake”. Eletti a oggetto di studio da questa originalissima studiosa e pensatrice, i matsutake sono delikatessen della gastronomia giapponese, in cui simboleggiano, a mo’ di emblema, tutto il profumo e il sapore dell’autunno. Dato che non possono essere coltivati, ma solo raccolti a mano, soprattutto nelle foreste dell’Asia orientale e del Nord America, i funghi matsutake alimentano un costosissimo commercio internazionale e soprattutto, come questo libro racconta, tendono a crescere prevalentemente in ambienti antropicamente devastati, aprendo la possibilità di nuove vite, per quanto incerte e precarie, di nuove patch di Olocene che forse potranno addirittura prosperare nel cuore dell’Antropocene. Con Hiroshima e Nagasake “ci siamo resi conto”, scrive Tsing, che l’umanità era “in grado di distruggere la vivibilità del pianeta – in modo intenzionale o meno. Questa consapevolezza è solo aumentata con le nostre progressive conoscenze a proposito di inquinamento, estinzione delle specie e cambiamento climatico. Una metà dell’attuale precarietà dipende dal destino della Terra: con quali tipi di perturbazioni antropiche possiamo convivere? Malgrado tutti i discorsi sulla sostenibilità, quante possibilità abbiamo di lasciare un ambiente abitabile ai nostri discendenti di specie diverse?”. Così, Anna Tsing inizia un viaggio di ricerca per “esplorare l’indeterminazione e le condizioni della precarietà, vale a dire della vita senza la promessa della stabilità.” I matsutake, infatti, mettono in evidenza le incrinature nell’economia politica globale, dato che, spesso, i loro cercatori professionisti appartengono a minoranze culturali costrette ad abbandonare il proprio Paese per ragioni sia economiche, sia politiche. “Raccogliere questi funghi per fini commerciali è il modo migliore che hanno per tirare avanti, perché non ne hanno altre. Ma che tipo di economia è questa? Gente che lavora da sola, che non è assunta da nessuna società. Non ha un salario, assistenza o altri contributi sociali: vende semplicemente i funghi che trova. In alcune stagioni i funghi non crescono, e chi raccoglie deve cavarsela in un altro modo. Raccogliere funghi selvatici per fini commerciali è l’esemplificazione di un modo di vivere precario, senza alcuna sicurezza.” E, prosegue Anna Tsing, “quando l’Unione Sovietica crollò nel 1991, migliaia di siberiani, di colpo privati di garanzie statali, corsero nei boschi a raccogliere funghi. Non gli stessi che sto studiando io, ma l’immagine rende bene la mia tesi: le vite incontrollate dei funghi sono un dono – e una guida – quando viene meno il mondo controllato che pensavamo nostro”.

fungo

“Credere allo spirito selvaggio” di Nastassja Martin (Bompiani)

E qui il libro di Anna Tsing, in un originale e paradossale cortocircuito, ci porta dritti al quinto consiglio di lettura, il mémoir di Nastassja Martin Credere allo spirito selvaggio (traduzione di Marina Karan, prefazione di Antonio Franchini, Bompiani 2021). “Tre anni fa Dar`ja mi ha raccontato il crollo dell’Unione Sovietica. Mi ha detto Nastja un giorno la luce si è spenta e sono riapparsi gli spiriti. E noi siamo tornati nella foresta”, scrive Martin, francese di madre italiana che sette anni fa, il 25 agosto 2015, in una zona selvaggia delle montagne della Kamčatka, nell’estremo Oriente russo, in modo quasi inverosimile resiste all’attacco di un orso, che, invece di uccidere la sua preda umana, senza apparente ragione la abbandona, lasciandola viva, ma sfigurata. Nel suo personalissimo saggio Nastassja Martin ripercorre quell’esperienza, la successiva, difficoltosa guarigione, e soprattutto il modo in cui le sue conoscenze e i suoi studi sulla cosmogonia dei popoli artici e siberiani, tra cui gli Evenchi o Eveni, l’hanno aiutata a trovare un senso alla sua terribile vicenda, imperniando questo lavoro di  ricostruzione di sé sulla figura della medka, la donna marchiata dall’orso, che le credenze locali avvolgono di quelli che chiameremmo tabù, come se il legame quasi-mortale tra uomo e animale continuasse oltre l’incontro a cui solo fisicamente si è scampati, in un dialogo tra realtà e sogno. “Noi qui viviamo con tutte le anime, quelle che errano, quelle che viaggiano, i vivi e i morti, i medka e gli altri, tutti”.

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“The Eye of the Crocodile” di Val Plumwood (Anu E Press)

La storia di sopravvivenza e reinterpretazione di sé che narra Nastassja Martin ha molti punti di contatto con gli scritti, ancora non tradotti in italiano, della filosofa ambientalista australiana Val Plumwood, raccolti in The Eye of the Crocodile, Anu E Press, 2013, che è il sesto consiglio di lettura. Nel 1965 Val Plumwood, che oltre a essere una filosofa era un’attivista per l’ambiente, mentre esplorava da sola in una canoa di fibra di vetro il Kakadu National Park nel nord del continente australiano e l’East Alligator Lagoon, venne attaccata da un coccodrillo marino, il più grande rettile vivente, e trascinata sott’acqua per tre volte. Quando era vicinissima alla morte fu – come Nastassja Martin – inesplicabilmente rilasciata. Gravemente ferita, con enorme sforzo riuscì a raggiungere il più vicino campo base, dove venne soccorsa. Questa esperienza di quasi morte violentissima e arcaica, questo sentirsi preda in un mondo che al suo sentire comune di essere umano appariva filosoficamente inaccettabile, un mondo violentemente eracliteo – è proprio l’aggettivo che usa Plumwood – in cui un essere umano, spogliato di ogni reale o presunta superiorità, può essere cibo come ogni altro essere non umano, perché, come scrive Plumwood citando le convinzioni dei nativi americani raccolte dagli antropologi, “tutto il cibo è fatto d’anime”, indusse nell’autrice un ripensamento filosofico integrale. Nel resto della sua vita, e nei suoi scritti, Plumwood rifletté sull’iperseparazione dell’essere umano dal mondo di cui è parte, fino a proporre una concezione animistica della morte. Naturalmente, per Plumwood, l’uso dell’aggettivo animista è alla seconda potenza – certo non possiamo tornare a una reale credenza animista – ma l’animismo, come scrive l’antropologo italiano Matteo Meschiari, è una utile teoria del tutto, è una tecnologia della mente: se tutto ci appare in qualche misura vivo, quale che sia la nostra definizione di vita, allora tutto intorno a noi è soggetto e ha non solo una soggettività ma uno sguardo sul mondo, una storia, un’intenzione, come ci ricorda Amitav Gosh ne La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza 2017, traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti), e potremmo dire un’agenda. Per Val Plumwood, nell’insoddisfazione e inquietudine che causano in noi oggi le concezioni spiritualiste o materialiste della morte – l’idea di un aldilà in cui sopravvivere come coscienza-spirito e il suo reciproco opposto, l’idea della fine di tutto nella dissoluzione del soggetto –  con l’idea del “morire una morte animista” ritorniamo invece al flusso del mondo, entriamo in una narrativa di continuità tra la nostra forma di vita e le altre. Il fine vita non è più spirito assenza o nullità, è una traccia concreta, reale, potremmo dire viva, che resta della nostra vita nella vita della nostra specie e anche in quella di altre specie. Nella concezione di Plumwood, che si ispira al pensiero aborigeno, ma anche ai cimiteri di campagna invasi dalla vegetazione in mezzo al bush australiano, la morte è una forma di cura estrema che rendiamo alla terra e alla comunità attraverso ciò che ci costituisce, il nostro corpo, offrendo – col nostro stesso corpo –conforto, speranza e vita ad altri.

crocodile 

“I sogni si spiegano da soli” di Ursula K. Leguin (Sur)

Storie come queste avranno bisogno di una nuova teoria del tutto sul raccontare storie, sulla narrazione e lo storytelling, una teoria che non c’è ancora, non è ancora stata scritta. I primi accenni potrete trovarli in un saggio di metà anni Ottanta di Ursula K. Leguin, La teoria letteraria del sacchetto della spesa, raccolta ne I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, volume di scritti, prefazioni e saggi dell’autrice de La mano sinistra del buio e la saga di Terramare, a cura di Veronica Raimo, da poco in libreria per edizioni Sur. Una teoria che, scrive Leguin, “non soltanto dà voce a vaste zone di oscurità teoretica ma scongiura anche molte zone di nonsense teoretici (abitate in larga parte da tigri, volpi e altri mammiferi fortemente territoriali)”, perché è la storia che fa la differenza, e se la storia che ci raccontiamo oggi giorno sembra stia per giungere al termine, “alcuni di noi, quaggiù tra l’avena selvatica e il grano alieno, pensano che sia meglio cominciare a raccontarne un’altra, che possa tramandarsi tra la gente quando quella vecchia sarà finita. Forse. Il problema è che siamo diventati tutti parte della storia assassina, e quindi la sua fine potrebbe coincidere con la nostra. È per questo che cerco con una certa urgenza la natura, l’argomento, le parole dell’altra storia, quella taciuta, la storia della vita”. Con questo settimo consiglio di lettura, e con la curiosità di sentirci raccontare e raccontarci questa nuova storia di tutte le storie, la nostra conversazione giunge alla fine, abbiamo tempo di salutarci, sappiamo che ci rivedremo presto, e, così, nonostante tutto, buona estate.

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