La grande tradizione israeliana rinasce con Itamar Orlev

Varsavia, 1988: in una casa di riposo per eroi di guerra è ricoverato il malmesso, irascibile, alcolista Stefan, abbandonato da moglie e figli che da decenni sono andati in Israele. Il figlio Tadek prova a ritrovarlo. Insieme cercano di fare pace col passato e col presente, si confrontano, si confortano, si giudicano. “Canaglia” di Itamar Orlev è un importante romanzo nel solco dei grandi di Israele… 

Gli editori di cui non possiamo fare a meno sono quelli che corrono ai ripari e mentre il canone vivente si sbriciola, e certe immense bandiere vengono ammainate perché la vita biologica ha disgraziatamente un termine (nel senso che siamo freschi orfani di Oz e Yehoshua), hanno un occhio più veloce, più allenato alla bellezza, più capace, e si prendono carico di una esigenze tutt’altro che banali: la collana Israeliana della casa editrice Giuntina è una risposta a tante domande, con classici come Kaniuk e Kenaz, con la giovane, ma già nell’Olimpo, Gundar-Goshen, con Assaf Gavron, Lizzie Doron, e con il lancio di una nuova scoperta, Itamar Orlev, figlio di un sopravvissuto alla Shoah, Uri Orlev, formidabile scrittore per l’infanzia, che è morto proprio qualche giorno fa.

Il figlio fallito, solo, in viaggio

Proprio un progetto iniziato ma poi ha accantonato dal padre Uri è stato portato avanti dal figlio Itamar. Carico di riconoscimenti, il romanzo dell’israeliano, ma residente a Berlino, Itamar Orlev, reso in italiano da Silvia Pin, si intitola Canaglia (397 pagine, 19 euro). È un libro duro e divertente, pieno di vodka, di umanità, di violenza. Al centro della scena un padre e un figlio. Tadek è uno scrittore fallito, abbandonato dalla moglie, che vende l’auto e raggiunge, da Gerusalemme a Varsavia, il padre ricoverato in una casa di cura per eroi di guerra e ormai in precarie condizione di salute, prossimo alla morte. Un uomo sparito dalla vita di Tadek da molto tempo: un estraneo o un padre, un individuo da amare o da odiare? Bugiardo, traditore, egoista, violento e attaccabrighe, Stefan Zagurski ha attraversato il Novecento – partigiano contro i tedeschi, torturato in un campo di prigionia, vendicatore dei collaborazionisti, infine, imprigionato e condannato a morte dai comunisti – e nulla gli è stato risparmiato, dai nazisti in avanti, opponendosi praticamente a tutti. Per certi versi, indagando sulla paternità e sul rapporto padre-figli, questo romanzo potrebbe di volta in volta far pensare al Cormac McCarthy de La strada o al Philip Roth di Patrimonio, o ancor più al più recente Le stelle si spengono all’alba di Richard Wagamese (ne abbiamo scritto qui). Lo sguardo di Itamar Orlev, però, è solo suo. Tadek si mette sulle tracce del padre nel 1988, alla vigilia della caduta della cortina di ferro, quando si sentono distintamente gli ultimi rantoli del socialismo reale nell’Europa dell’est.

Il padre delira, impreca, geme

Il padre, inseguito da fantasmi e atrocità del passato, rintracciato, fa di tutto per confermare che per i genitori è impossibile essere all’altezza dei figli. Il frullatore di sentimenti, a cominciare dai reciproci sensi di colpa dei protagonisti, che finisce per essere questo romanzo più ci si addentra nella lettura sfocia in una domanda inevitabile, fin da quando la storia assume contorni definiti – diciamo dopo una cinquantina di pagine -: pace e riconciliazione sono possibili? Col padre, col figlio, con i torturatori dei lager, col ricordo degli amici che non ci sono più, con i delatori che lo stesso Stefan ha provveduto a far fuori, omicidi senza pentimento. Delira, impreca, geme, il padre, in pagine di grandissima letteratura. I due si confrontano, si confortano, si giudicano, si stanno accanto in un viaggio verso il villaggio natale di Stefan, per scegliere assieme la tomba del padre. Lì tutto si compie.

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