“Il lungo addio” di Raymond Chandler – tra distacco, misoginia, frontiera, sconfitta – è esemplare della produzione dello scrittore statunitense. Ed è un canto d’addio alle illusioni del secolo americano, il Novecento, incarnate anche dalla consapevole e insieme inconsapevole dipendenza dalla mitologia di Hollywood
Ve lo ricordate Viale del tramonto, il film di Billy Wilder del 1950? Joe Gillis interpretato da William Holden, già morto, ucciso dalla gelosia e dalla disperazione della diva dimenticata Norma Desmond (la grande Gloria Swanson), racconta appunto da morto, in un lungo flashback, quella vicenda tragica.
È l’America che stava facendo il grande passo verso gli anni Cinquanta delle Cadillac e degli elettrodomestici per tutti. Ma era pure l’America buia della segregazione razziale, del maccartismo soprattutto, della miseria morale e civile delle metropoli in continua espansione.
Se Wilder, nel suo capolavoro, ce la fa vedere con gli occhi proiettati al passato che non può più tornare, lo fa per annunciarci gli inganni e le imposture che la stavano edificando, sotto una patina fluente, come una pellicola.
La serialità diventa quasi mitologia
Questa stessa America oscura e torbida ce la legge un altro capolavoro, questa volta di carta, Il lungo addio di Raymond Chandler (1953). Chandler arriva con questo libro alla sesta avventura, diciamo così, del suo investigatore Philip Marlowe.
È un libro poliedrico, dove la serialità diventa quasi mitologia, tanto sono archetipici i protagonisti, icastici, definiti come se fossero l’incarnazione (del tutto apparente) del bene e del male, del bello e del brutto e naturalmente del giusto e dell’ingiusto.
Ho tra le mani la traduzione di Bruno Oddera per Feltrinelli: stavolta mi sono preparato meglio per questa piccola nota, rispetto a quella su Simenon (qui l’articolo) dove ho dovuto dare fondo alla mia memoria (era abbastanza buona fino a qualche tempo fa, ma gli anni passano).
Proprio perché ho il libro tra le mani posso permettermi di riportarne un brano per intero, quello che per me meglio rappresenta questo capolavoro:
Ci sono bionde e bionde, e al giorno d’oggi questa è quasi una battuta di spirito. Tutte le bionde hanno i loro vantaggi, […] C’è la bionda piccoletta e furba che cinguetta e ciangotta, e l’imponente bionda statuaria che con uno sguardo azzurro come il ghiaccio ti mette con le spalle al muro. C’è la bionda che ti guarda dall’alto in basso, e ha un buon profumo, ed è tutta vibrante luminosità, e ti si attacca al braccio ed è sempre tanto, tanto stanca quando l’accompagni a casa.
L’incubo americano
Il catalogo delle bionde continua a lungo nel libro, ma non abbiamo spazio. C’è tutto dei protagonisti dei libri di Chandler. Il distacco, cinico ma fragile, la misoginia come inadeguatezza alla vita, la frontiera (termine fatale in America) verso la bellezza che diventa privazione e sofferta rinuncia. La sconfitta predestinata del protagonista è una parafrasi del tradimento delle promesse della società americana. Il sogno americano è in realtà un incubo, nelle infinite notti chandleriane: il nero che avvolge la notte anziché nascondere, disvela, ma il disvelamento non può dare luogo ad alcuna soluzione poiché non ci sono soluzioni. Risolvere un mistero per Philip Marlowe è sempre un fatto personale, una sfida per la salvezza delle persone amate. La verità non esiste, in questo senso, è sempre un portato dei sentimenti, non della ragione. E, infatti, il tradimento da parte del suo amico Terry Lennox, all’origine della vicenda intricata del libro, è esemplare di questo processo: cerchiamo ciò che non vogliamo trovare, e l’uomo, bugiardo, arrogante, tragico, è sempre alla fine più importante della verità, e più deludente.
Un vecchio vinile
Anche questa volta sento il bisogno di un po’ di musica. Mio padre non c’è più da qualche anno, ma trovarlo nelle cose, nei suoni e nelle immagini, diventa sempre più facile invece che più difficile. Aveva un vinile di Fred Buscaglione, quale migliore colonna sonora per queste pagine… Sfilo il disco dalla copertina, con cautela: è un oggetto sacro per me. Scelgo il brano sicuramente più adatto: “Che notte”.
“Ci vado, la vedo, è lei
Ma dalla nebbia ne spuntano
altri sei
Buck la Peste, Jack Bidone coi fratelli Bolivar
Mentre sotto ad un lampione se la spassa Billy Car
Che botte, che botte quella
notte
Mi ricordo di sei mascelle rotte
Ho un sinistro da un quintale
Ed il destro, vi dirò
solo un altro ce l’ha uguale ma l’ho messo a KO“.
Il lungo addio è un titolo irrinunciabile, per nulla datato. È l’addio a quello che abbiamo vissuto nel Novecento, alle illusioni di un mondo dorato, alla felice, consapevole e insieme inconsapevole, dipendenza dalla mitologia di Hollywood. Possiamo leggerlo, se vogliamo, come il lungo addio al Novecento, il secolo americano.