La letteratura e il meccanismo creativo al centro di “Billy Budd, BIlly Budd, an inside reading”, saggio di Vitaliano Trevisan sull’ultima opera di Hermann Melville. Un breve testo in cui ci sono anche sottili e inaspettati intrecci….
Fatale sembra essere in molti casi la morte per scrittori come per donne e uomini di arte in genere. Spesso la loro fortuna sembra inevitabilmente essere destinata ad arrivare fuori tempo massimo, per i diretti interessati si intende. Per alcuni a partire da quel momento sembrano aprirsi i cancelli della gloria o di un minimo riconoscimento, o molto più prosaicamente e in ossequio alle più banali leggi del marketing iniziano, se si tratta di scrittori, ristampe e pubblicazioni di quanto del più vario materiale disponibile, fino ad allora magari dimenticato nei cassetti di qualche direttore editoriale. Difficile dire nel caso di Vitaliano Trevisan, lo scrittore vicentino tragicamente scomparso lo scorso gennaio, a quale necessità faccia capo la rimessa in circolazione (cosa di cui rallegrarsi) di sue opere, alcune come ristampa, altre completamente inedite. Tra tutte meritoria la riproposizione da parte di Einaudi del suo I quindicimila passi, il romanzo (del tutto sui generis) che lo ha fatto conoscere al grande pubblico del 2002 e da anni fino a circa due mesi fa praticamente introvabile. Esemplare e altrettanto meritoria tal senso è la proposta di Oligo di un breve saggio di Trevisan dal titolo Billy Budd, BIlly Budd, an inside reading (42 pagine, 12 euro) arricchito dal ritratto dell’autore che fa Davide Bregola in chiusura e già contenuto nel volume edito sempre da Oligo dal titolo Scrittori appartati d’Italia (ne abbiamo scritto qui).
Il romanzo postumo di Melville
Trevisan oltre a scrittore di romanzi e racconti è stato anche autore teatrale e saggista, da non perdere il suo Tristissimi giardini. Il breve (si legge in una pausa pranzo) ma denso e significativo saggio edito da Oligo, utile per entrare nell’officina della scrittura dell’autore vicentino, distilla in poche pagine, traendo spunto dall’ultimo e postumo romanzo di Hermann Melville, testo più stratificato di quanto potrebbe apparire, alcune riflessioni sulla natura stessa della letteratura, aprendo scenari illuminanti sullo stesso processo che dà il via al meccanismo creativo. Cosa se non piccole perle di verità letteraria possono essere definite alcune riflessioni qui contenute prendendo spunto dal plot del romanzo di Melville? Cose del tutto particolari che solo la letteratura è in grado di fare: “Non è forse questo uno degli scopi della scrittura, si tratti di poesia oppure di prosa, ovvero rendere nel modo più chiaro e razionale, più specifico e lucido, il vago e l’indefinito, l’indeterminato, l’irrazionale?” Luci sull’irrazionale tramite l’invenzione di una storia, perché è questo ciò che gli scrittori fanno, una storia, come scrive Melville in una nota a margine del manoscritto della sua opera postuma: “non estranea a ciò che accade in questo nostro mondo incongruo, fatto di innocenza e debolezza, depravazione spirituale e nobile riscatto”. Sull’incongruo da notare che I quindicimila passi, si chiude con una mirabile citazione kafkiana: “Siccome mancano gli uomini coerenti, non si hanno neanche azioni letterarie coerenti”. Quasi un manifesto poetico, sia per Kafka, per Trevisan e chissà se lo sarebbe stato anche per Melville. Del resto uno dei più leggendari personaggi usciti dalla penna del romanziere americano, Bartleby, parla di un copista che si rifiuta di scrivere e non fa che osservare il muro davanti a sé senza dare altre spiegazioni al suo non voler scrivere se non il celebre “preferisco di no”. Bartleby, la più lucida per quanto insondabile espressione della messa in burla dell’idea che gli individui debbano essere formazioni categoriche coerenti, non anomale, come se non fosse un anomalia la stessa presenza, lo stesso mostrarsi ed essere al mondo e contemporaneamente nell’idea che vi sia qualcosa di occulto da smascherare (il mistero di quel “preferisco di no), l’impossibilità di guardare le cose nel loro stato di presenza, nella loro “verità visibile” come la definisce Melville e quindi riconoscere in personaggi come Bartleby, ma anche nel Billy Budd, oggetto dello studio di Trevisan, la loro condizione assoluta di cose presenti, la loro insondabilità e contemporanea presenza che ha i caratteri di un’apparizione.
Quelle affinità fra scrittori
Gli autori scelgono i propri lettori (e viceversa) per affinità, una strana corrispondenza di amorosi sensi letterari ed esistenziali da non poter mai chiarire fino in fondo e il fatto che Trevisan in questo breve saggio focalizzato su Melville che si colloca cronologicamente nel cuore della sua produzione letteraria, il testo è del 2004, pochi anni dopo vedranno la luce i suoi testi teatrali, non può essere casuale. L’autore di Moby Dick nato nel anno del signore 1819 dopo le sciagure finanziarie familiari e le più svariate occupazioni fra le quali impiegato di banca, commesso e agricoltore, si imbarca verso i mari del Sud, esperienza che sarà di ispirazione per le sue prime opere che con alterne fortune lo porteranno alla pubblicazione nel 1851 del suo capolavoro, Moby Dick appunto: successo zero come per il successivo Pierre. Una carriera costellata da clamorosi rifiuti e da eventi che sembrano volerlo allontanare dalle sue aspirazioni, come l’incendio divampato nei magazzini dell’editore che distrugge tutte le copie e i piombi dei suoi volumi e che segna simbolicamente e prematuramente la fine della sua carriera letteraria. Nel 1855 Hermann Melville non è più considerato socialmente uno scrittore. Il suo capolavoro, Moby Dick è oggi considerato una delle opere fondamentali della letteratura mondiale e verrà scoperto solo nel 1921. Tre anni dopo vedrà la luce il Billy Budd, Billy Budd, del quale si occupa Trevisan, il quale dal punto di vista biografico ha in comune con lo scrittore statunitense il suo aver trascorso gran parte della sua esistenza occupandosi di tutt’altro che di letteratura: è stato aiuto muratore, geometra, arredatore, ne dà conto nel suo Works del 2016 (qui un articolo), vero e proprio testamento letterario ed esistenziale, uscito in versione ampliata proprio dopo la sua morte.
Uno sfondo da tragedia classica
Il sottotitolo del saggio (an inside reading) dice molto del credo letterario di Trevisan applicato in questo caso al romanzo di Melville. Billy Budd, il “Bel Marinaio” imbarcatosi su una nave da guerra inglese, allegro e spontaneo, per questo benvoluto dal capitano, dagli ufficiali e dai compagni, attirerà su di sé l’invidia del malvagio maestro d’armi Claggart che lo accuserà ingiustamente così da suscitare la sua reazione che involontariamente causerà l’uccisione dello stesso Claggart da parte di Billy Budd stesso. Uno sfondo da tragedia classica prende possesso del romanzo. Come nell’Antigone sofoclea, lo stesso scarto tra la legge degli uomini e la legge degli dei in modo crudele porta alla condanna di un innocente secondo una muta legge di natura che colpisce il protagonista, un personaggio che essendo “radicalmente buono” non può integrarsi nella società umana. Osserva giustamente Trevisan che tale caratterizzazione del personaggio fa della storia di cui il “bel marinaio” è protagonista non un romanzo ma una narrazione, un qualcosa che può essere definito meta-testuale, non una storia, ma la storia della storia, un sotto-testo, un testo interno, qualcosa che va oltre lo sviluppo del plot e l’agire degli stessi personaggi, una lettura quindi non vincolata a un solo punto di vista, ma inesauribile come è nella specificità ogni opera letteraria. In Billy Budd ne sono testimonianza le svariate stesure da parte di Melville e gli approfondimenti psicologici sui personaggi che subentrano, come quello del Capitano Vere, tanto che la “storia” del romanzo fa pensare a un incompiuto. È in questo caso lo stesso Melville a venire in soccorso del possibile disorientato lettore, proprio all’interno del romanzo, dicendo: “La simmetria della forma che si può raggiungere nella finzione pura non è così facile da ottenere in un racconto che sostanzialmente ha più a che fare con la realtà che con la fantasia. La verità detta senza compromessi avrà sempre gli orli frastagliati” “Dunque no, nessuna lettura che badi alle apparenze potrebbe soddisfarci” chiosa Trevisan che sembra aver assimilato la lezione di Melville che con il suo Billy Budd ci mostra nuovi livelli di significazione all’interno del romanzo che si sovrappongono e si intrecciano, trasformandosi alla luce dei diversi modi di considerarli. Per chi ha letto I Quindicimila passi (vale ancora ricordare che il libro è tornato disponibile) e riflettuto sul suo particolare schema narrativo niente di più chiaro, o oscuro, dipende da quale punto di vista si scelga. Allo stesso modo se si pensa a un’opera come Works, scopriremo che il dato autobiografico di sovrappone e si contamina con più profonde riflessioni sull’esistenza e sulla società, tanto da non poterla definire riduttivamente un’autobiografia, opere come queste non catalogabili come romanzi, ma narrazioni con diversi livelli di significazione come ancora nel Trevisan di I quindicimila passi ove il sottotitolo non a caso è “un resoconto”, nella fattispecie con alcuni di quelli stilemi tipicamente bernhardiani (Thomas Bernhard palesemente più che un nume tutelare per Trevisan) quali il corrosivo, cinico, ossessivo, e granuloso monologare filosofeggiante della voce narrante.
Una speranza
Un’arte come quella letteraria è spesso destinata all’oblio, allo stigma, quando non alla vera e propria censura, spesso perché inattuale quindi difficilmente decriptabile quando anche profetica in un’epoca che ne partorisce di presunti tali alla velocità della luce, spesso perché intacca o minaccia meccanismi e verità consolidate, spesso perché ci fa vedere senza sconti e abbellimenti cose che rifiutiamo di vedere di noi stessi e della società che abbiamo costruito intorno a noi. Non è questo il luogo e nemmeno il tempo di dire ove gli scritti di Vitaliano Trevisan si collochino ma c’è da sperare che il tempo regalerà maggiori lettori e approfondimenti a uno scrittore che ci ha fatto vedere quelli orli frastagliati di cui parlava Hermann Melville.
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