Memoria e testimonianza contro un raccapricciante genocidio silenziato dalla storia. “Il numero 31328. Il libro della schiavitù” è un’opera straordinaria della letteratura neo-ellenica, scritta da Ilias Venezis. Romanzo autobiografico di un giovane deportato dai turchi nei “battaglioni di lavoro”, un’anticipazione, negli anni Venti del Novecento, dei lager nazisti
Dove erano finiti? Perché erano spariti? Che colpe dovevano scontare? Perché, alcuni, non erano mai arrivati? I volumi che stanno via via componendo il nuovo catalogo Settecolori non hanno nulla da invidiare ad altri titoli che sono già nei cuori dei lettori fortissimi. E anche quando appartengono ad autori controversi, quando non addirittura detestabili come individui, queste opere meritano prima d’essere lette e poi, se necessario, di essere vivisezionate, sconsigliate, criticate negativamente. Molte sono spesso recuperi leggendari. È il caso del romanzo, a fortissime tinte autobiografiche, del greco Ilias Venezis, scomparso da quasi mezzo secolo.
Pochissimi sopravvissuti
Il numero 31328. Il libro della schiavitù (288 pagine, 22 euro), tradotto per la prima volta dal greco da Francesco Colafemmina e con prefazione di Antonia Arslan, è un’opera straordinaria della letteratura neo-ellenica, scritta da Ilias Venezis e pubblicata nel 1931. Racconta dolori inauditi, abissi di abiezione, tragedie che lasciarono il segno e conseguenze che sono ancora vivissime in Grecia, ma quasi sconosciute all’estero. Immaginate gli orrori, le infamie e le nefandezze della seconda guerra mondiale, a cominciare dai lager. E immaginateli in anticipo, negli anni Venti del Novecento i turchi massacrarono il popolo greco che viveva in Anatolia. I greci volevano rialzare la testa in Asia Minore, la multietnica città di Smirne era un obiettivo, ma la controffensiva turca – di truppe kemaliste e milizie irregolari, i cosiddetti tsetes – costrinse alla ritirata l’esercito regolare greco, e si rivelò devastante, traducendosi in violenze, sevizie, stupri, e soprattutto in deportazione: bastava avere diciotto anni per finire nei “battaglioni di lavoro”, in condizioni disumane. Il giovanissimo Ilias fu uno dei pochissimi sopravvissuti di una pulizia etnica – che s’ammanta anche di fanatismo religioso, turchi musulmani contro greci cristiani – su cui è calato il sipario della storia, di cui è stato silenziato ogni atroce rumore, ogni raccapricciante particolare. I suoi quattordici mesi di prigionia sono diventati un canto disperato, un’epopea del dolore, un documento atroce, una testimonianza di altissima qualità letteraria che non si può ignorare.
Un male che ci sconvolge?
La crudeltà e il dolore. Il male. Il romanzo ne è imbevuto dalla prima all’ultima riga, sebbene ci sia qualche sprazzo di speranza e più di un appello a un Dio che, nonostante tutto, si invoca. A circa cento anni di distanza dovrebbe inorridirci l’immagine di individui ridotti in schiavitù, la scomparsa dell’umanità, il venir meno della solidarietà, il tragico parallelo di greci (sorta di kapò) peggiori dei turchi nelle crudeltà riservate ai propri connazionali. Ma ci sconvolge davvero? I tanti tragici episodi che si susseguono, sebbene in una prosa asciutta e per nulla infarcita di retorica, sono in grado di ferire anche i cuori anestetizzati di molti lettori di oggi, alle prese con una guerra che va in onda come una fiction a puntate nei rettangoli televisivi.
Imperfezione e bellezza
Forse è un libro imperfetto, ma osa come la grande letteratura sa fare e ha un impatto immediato su qualsiasi lettore vero, almeno con un muscolo cardiaco in salute nel mezzo della cassa toracica. Il racconto di un genocidio dimenticato, di un esodo forzato e di tutto quel che ne segue non impedisce a Ilias Venezis d’intercettare la bellezza e la poesia. Non molla quando fa i conti con solitudine e vessazioni e riesce a trovare le parole per dire quello che molti considererebbero indicibile. È il trionfo della memoria e della testimonianza.
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