Nella visione di ampio respiro che il filosofo Mosè Maimonide, tra i maggiori pensatori dell’ebraismo, ha della Torah, “Ritorno a Dio. Norme sulla Teshuvà” è solo la tessera di un puzzle. Non le semplici istruzioni per l’uso della prassi penitenziale, ma un trattato teologico. Che ha qualche piccolo punto di contatto col Vangelo… Un nuovo contributo alla rubrica Area 22
“Quando si parla di Secoli bui, io mi faccio due domande: ma quando cominciano, e chi è stato a spegnere la luce?” Con questa celebre battuta di Luciano De Crescenzo vogliamo introdurre il suo filosofo medievale preferito (cfr. Storia della filosofia medievale, Mondadori 2002, p.119), ovvero Mosè ben Majmôn (1138-1204). A De Crescenzo stava simpatico perché scrisse una guida ai perplessi, e in effetti questo era uno dei tanti segnali della sua grande modernità. Il problema quindi non è lui o gli altri scrittori coevi; siamo noi che in quanto postcontemporanei abbiamo perso ogni modernità, passando dalla perplessità alla strafottenza, condita con una passione per l’effimero, frutto marcio dell’impossibilità di credere o capire ormai assunta come un dato di fatto.
Ottenere il perdono di Dio
Mosè Maimonide com’è noto era ebreo ed è maestro (rabbenu) di riferimento ancora oggi; in queste poche righe non ci occuperemo di fare una sintesi del suo pensiero, bensì di esporre uno dei suoi preziosi scritti minori (si fa per dire), con grande perizia riproposti nelle collane della Giuntina. Intanto il termine: di che cosa stiamo parlando? In Ritorno a Dio. Norme sulla Teshuvà (107 pagine, 12 euro), tradotto da Raffaele Levi, si affrontano sicuramente aspetti della prassi penitenziale, mettendo in evidenza come e in che modo nella Torah si possa ottenere il perdono di Dio. Il parallelo mentale costante con il sacramento della Riconciliazione nel cattolicesimo viene spontaneo, e uno studio comparato con la Summa theologiae di S.Tommaso ( III, qq. 84-90 e spl.) sarebbe interessante e fruttuoso. Ma come per l’Aquinate, questo libriccino è molto di più: è chiaramente un trattato teologico. Teshuvà è correttamente tradotto con ritorno, e non la semplice confessione dei peccati, il cui termine tecnico è widduì. La cornice entro cui la Torah viene minuziosamente snocciolata è quella dei trattati di ampio respiro, di una grande visione di cui questo scritto è solo come una tessera di un puzzle. Dal lontano Giovanni Scoto Eurigena, fino al compaesano musulmano Averroè (nato proprio in quegli anni sempre a Cordova), una concezione ciclica del cosmo e del microcosmo, dell’anima e del suo ritorno a Dio insieme a tutto il creato, sono lo sfondo mistico-razionale entro cui bisogna riflettere e con cui far collidere il dato biblico qualora sia divergente.
Il libero arbitrio, dono di Dio
Il testo che abbiamo in mano presenta alcune brevi ma preziose introduzioni. La prima è del Rabbino capo di Roma, rav Di Segni; a seguire del rav Roberto Della Rocca. Quest’ultimo, magnificamente sintetizza: “la Teshuvà è riparazione in quanto è re-inizio”. Tra l’altro egli ben ci ricorda che contrariamente ai cristianesimi, la Teshuvà non è Grazia ma “sbocco naturale dello sforzo umano” in quanto “non c’è nessun peccato originale!” (pp. 18-19). Ecco quindi il primo indizio di modernità: la difesa a spada tratta del libero arbitrio, come dono di Dio e tassello imprescindibile della Creazione. Al capitolo V (p.61) del libretto, nella parte centrale dell’opera, così egli esordisce:
La facoltà del libero arbitrio è data ad ogni uomo. Se questi desidera prendere la retta via ed essere tzaddiq (=giusto) può farlo e può farlo pure se desidera prendere una brutta via ed essere malvagio (…). L’uomo fa ciò che desidera fare e non c’è chi gli impedisca di fare il bene o il male (…). E non ti sfiori neanche per un attimo il pensiero che sia il Santo Benedetto già al concepimento che il nascituro dovrà essere giusto o malvagio come pensano gli stolti tra le genti e tra gli stesi ebrei.
Viene dunque presentata una rigida dottrina delle due vie, non a caso come in molti scritti giudeo-cristiani dell’età subapostolica (per es. Il pastore di Erma o la Didachè). Ogni tipo di predestinazione è stroncata sul nascere, con buona pace del pensiero protestante classico, che non a caso accentua il peso di quel peccato originale a tal punto che solo la Grazia di Dio (nella persona di Cristo) può redimere, riscattare. Facciamo notare che Mosè Maimonide nel Duecento esprime gli stessi concetti, basandosi sulla Torah, che poi saranno riproposti su base umanistica da Pico della Mirandola ed Erasmo da Rotterdam qualche secolo dopo. Tra l’altro – aggiunge Maimonide, con pungente retorica – “quale sarebbe la ragion d’essere di tutta la Torah? E in base a quale criterio o quale legge verrebbe allora punito il malvagio e premiato il giusto?” Insomma, che ci piaccia oppure no, sulla necessità della libertà umana sta o cade l’esistenza di un Dio di Giustizia, e della fede nella sua Legge.
Non una dichiarazione, ma l’abbandono del peccato
“E in che cosa consiste la Teshuvà?” Egli stesso (per i suoi lettori), in perfetto stile Marzullo si fa la domanda e si dà la risposta, al punto B del capitolo II (p.40). “Nell’abbandonare il peccato, nell’eliminare il pensiero dalla mente, nel riproporsi di non commetterlo più”. E questa confessione dev’essere pronunciata con le labbra, con voce chiara. Sulla scorta del passo biblico Pr 28,13, chi confessa e abbandona il peccato sarà perdonato. Ecco perché la Teshuvà non è una semplice dichiarazione d’intenti con cui si vuota il sacco (magari solo in apparenza: subito il Maimonide ammonisce sugli atteggiamenti ipocriti e le finte Teshuvà): solo dopo aver visto la realtà dell’abbandono del peccato il Signore riconcilia a sé il peccatore effettivamente redento; alla misericordia divina come possibilità deve far seguito l’uomo con le sue opere per rendere attuale la Teshuvà. Nelle pagine seguenti Mosè Maimonide spiega le modalità attraverso cui chiedere e ottenere il perdono, la Teshuvà. Restando nella più tipica tradizione giudaica, egli distingue i peccati commessi direttamente verso Dio (cioè le trasgressioni alle norme rituali, violazioni dello Shabbat o delle prescrizioni alimentari) e quelli commessi nei confronti del prossimo. I primi non vanno confessati in pubblico se non genericamente (il contrario sarebbe sfacciataggine, egli asserisce), e il Signore può concedere da Sé la Teshuvà al penitente. Il percorso in caso di peccati verso il prossimo è tutto al contrario: intanto va fatta la confessione pubblica del peccato (affinché si provi la vergogna per quanto si è fatto), ma…
le colpe commesse ai danni del prossimo, come ad esempio aver danneggiato un compagno, averlo maledetto, derubato, ecc., non verranno mai espiate se non dopo averlo risarcito per il danno e averne placato l’ira. Non basta assolutamente la restituzione del denaro dovutogli, ma è anche indispensabile placare la sua ira e ottenere il suo perdono. (p.43)
Il perdono degli uomini
Il perdono di Dio passa attraverso il perdono degli uomini; non c’è altra via nell’ebraismo. Ma il Maimonide capisce bene questo vincolo non può essere assoluto. Ed infatti, nei paragrafi successivi, sfruttando una lunga tradizione rabbinica, chiarisce che se il penitente ha restituito (quando possibile) il maltolto, chiesto più volte perdono anche in presenza di testimoni e fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per ottenere il perdono ma questo si ostina nella sua ira e non lo concede, allora il penitente può considerarsi in Teshuvà e la colpa ricade in colui che non ha concesso il perdono e rimane ancorato al suo rancore. Perché i figli d’Israele “non è lecito essere crudeli ed insistere a non voler rappacificarsi”. Se richiesto con insistenza e autenticità, il perdono va concesso “con tutto il cuore e con tutta l’anima”, frase che credo il Maimonde usi in maniera non casuale. Anche qui, i prodromi della modernità dell’autore ci balzano all’occhio: egli avrebbe ben saputo inscriversi al dibattito novecentesco sul perdono, con ragionamenti arditamente dialettici degni del saggio di Jacques Derrida. Certo – continua l’autore – ci sono colpe subite talmente grandi e offese così gravi che concedere il perdono è molto difficile per l’uomo. Ciononostante, questa è la via prediletta dell’uomo circonciso, e in questo si distingue dagli incirconsisi: così chiosa Mosè Maimonide, facendo leva su una peculiarità del loro cuore che poggia su passi quali Ger 4,4, ancor prima di ricordare a noi cristiani un tipico tema della predicazione paolina. Questo è uno dei punti di maggior contatto col Vangelo: l’argomento è molto simile al celebre passo dell’amore dei nemici di Lc 6,27-35.
Ricompense e castighi
Malgrado l’uso sapiente e puntuale della Torah, che Mosè Maimonide riesce ad utilizzare come puntello successivo ad ogni suo enunciato, si evince sempre e comunque il ruolo centrale dell’uomo e delle sue libere scelte, fino al punto che il filosofo ebreo rischia d’incartarsi. Anche davanti ad un peccatore che Giustizia vuole che venga punito, tale punizione può essere impartita da Dio solo nel caso che il peccatore non abbia fatto Teshuvà;
…se invece ha fatto Teshuvà, questa diventa una barriera di fronte alla tribolazione. E così come l’uomo pecca per decisione autonoma e di propria volontà, allo stesso modo gli è data facoltà di fare Teshuvà, per decisione autonoma e di propria volontà. (p.68)
Davanti alla Teshuvà dell’uomo, Dio è impotente. Anche qui, non possiamo non sottolineare che si tratta dello stesso argomento del principio di responsabilità di una altro filosofo ebreo, Hans Jonas. Ma torniamo alla logica interna al libretto. Siccome nei paragrafi precedenti, sciorinando le casistiche tra Torah e mitzwuot, l’autore ha dovuto ammettere che vi sono categorie di peccati non sanabili e che portano l’uomo alla perdizione definitiva, allora egli ha dovuto introdurre il seguente escamotage (retorico o teologico?): la massima punizione che Dio può dare all’uomo è di sbarrargli la strada verso la Teshuvà (ibidem), cosicché, seguendo un principio di giustizia umanamente intellegibile, vi siano uomini che subiscono la pena per la gravità dei peccati commessi, e alla fine vengono condannati. Affinché si possa dire: “di propria libera scelta hanno commesso tanti e tali peccati da precludersi la possibilità di fare Teshuvà e riscattarsi” (p.69). Certo, la prossima domanda che dovremmo porci è: in che cosa consiste la condanna definitiva? Sin dal primo capitolo Mosè Maimonide la sbandiera come monito e limite alla Teshuvà: è la pena del karèt. Qui entriamo esplicitamente nel campo dell’escatologia, ramo della teologia che l’autore conosce bene avendo scritto anche un manuale intitolato Immortalità e resurrezione (edito in Italia da Morcelliana). Qui evidentemente deve limitarsi, e visto la finalità tutto sommato pastorale dell’opera non possiamo accusarlo di mancanza di coerenza interna al testo. Vediamo quindi solo un passaggio significativo del capitolo VIII (p.78), in cui egli prende di petto una questione che non può più evitare:
E il bene riservato agli tzaddiqim consiste nella vita del mondo a venire, cioè la via che non è seguita dalla morte e il bene che non ha accanto il male, e questo è ciò che detto nella Torah (Dt 22,7)… La ricompensa dei giusti è che si meriteranno questa vita deliziosa e si troveranno inseriti in questo bene, e il castigo dei malvagi è che non si meriteranno questa vita ma saranno «recisi» e morranno; e chi non si merita questa vita è lui il vero morto ed è come se non fosse mai vissuto e viene distrutto per la sua malvagità e va perduto come un animale. Questo è appunto il significato del karèt (recisione), di cui si parla nella Torah. E infatti è detto: «Quell’anima sarà recisa» (Nm 15,31).
L’immortalità? Solo ai giusti
È riduttivo commentare quanto sopra senza le argomentazioni delle pagine successive, in cui Mosè Maimonide fa sintesi del pensiero platonico dell’anima (separata dal corpo) con le categorie aristoteliche di potenza, atto e forma, una forma spirituale sempre più perfetta in misura della sua conoscenza di Dio. Restando invece al passo sopra citato, notiamo il peso della citazione del libro dei Numeri, che si riverbera il tutto il capitolo e nell’intero libro. Lo scenario escatologico che qui si propone è di una resurrezione solo dei giusti: solo le anime di questi (e di quelli che sono riusciti a fare Teshuvà) sono ammessi alla vita eterna; gli altri, semplicemente, non rinascono. Le loro anime vengono recise dall’Albero della Vita come rami secchi destinati ad essere bruciati. L’anima che permane nel peccato perde la sua immortalità. Questa enunciazione non risolve tutti i problemi, anzi ne crea parecchi e il Maimonide lo sa. Soprattutto quali siano i peccati che non sono espiabili e che meriteranno il karèt: tutta la prima parte del libro si occupa di questo. Ma anche quali siano le forme di espiazione: bastano le sofferenze in questa vita, le varie tribolazioni, a fungere da purgatorio terreno? Spesso no; ed per questo che Mosè Maimonide alla fine del primo capitolo lascia cadere un assunto che andrebbe analizzato con maggiore: “la Teshuvà, il Kippur e le sofferenze hanno insieme la forza di sospendere la punizione e la morte espia la colpa” (p.38). Che significa ciò? Io un’idea ce l’avrei, ma bisognerebbe confrontarla con gli altri suoi scritti. E poi, per fortuna di voi lettori, il mio spazio è già terminato da un pezzo. Ringrazio Dio di averci dato un cosi luminoso esempio di armonia tra riflessione razionale e pensiero religioso.
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