Con “La voce del mare” Roberto Mussapi spiega come occorra dimenticare sé stessi per potersi ritrovare come creature ritornate innocenti, che approdano avidamente alle rive della conoscenza. Uno sguardo sui viaggi e ritorni, da Ulisse a Moby Dick, che mostra anche come nel mare si faccia fatica a mantenere intatte molte maschere quotidiane
“Solo gli inquieti sanno com’è difficile sopravvivere alla tempesta e non poter vivere senza” (vorrei averle scritte io queste parole e le faccio mie incondizionatamente), questa frase di Emily Bronte, che in Cime Tempestose ha descritto quanto l’amore possa elevarci e annientarci allo stesso tempo, rappresenta perfettamente la cifra ultima di un libro breve ma denso di racconti e sogni, ovvero La voce del mare (118 pagine, 17 euro) di Roberto Mussapi, edito da Marietti 1820.
Il mare è il luogo dove, mettendo praticamente a nudo i nostri corpi, fatichiamo a mantenere intatte molte maschere (e qua Freud e Pirandello ci vanno a nozze) con cui ci presentiamo quotidianamente al mondo, e il bello sta nel fatto che ne siamo consapevoli eppure non c’importa granché, perché di fronte al mare il cor non si spaura anzi riprende un ritmo che gli è più congeniale, quello della contemplazione della meraviglia che siamo noi stessi e il mondo che ci ospita per un tempo fugace.
Tra μῦϑος e λόγος
“I miti sono fatti perché l’immaginazione li animi”. Albert Camus, nel 1942, con Il mito di Sisifo coglie l’essenza profonda del racconto mitologico che travalica i secoli perché fiorisce su una dimensione dell’uomo che nutre e alimenta il suo spirito, che è la fantasia, l’immaginazione, senza cui l’essere umano non riesce ad andare oltre i suoi limitati orizzonti sensoriali. Roberto Mussapi scrive appunto che dopo più di duemila anni il mondo legge il poema di Omero, non so se tra cento anni si leggerà l’Ulisse di Joyce. Con buona pace del grande scrittore James Joyce, l’affermazione di Mussapi ha un suo valore filologico, perché non fa altro che prendere atto di una realtà incontrovertibile, ovvero non solo la sopravvivenza del Mito oltre il tempo e lo spazio, ma ancor di più la sua eterna attualità come chiave di lettura per i mille interrogativi che l’uomo dagli albori della civiltà pone a sé stesso, in una ricerca di senso che non può avere fine, almeno finché la statua della Libertà riuscirà a riemergere dal mare, come nella epocale scena conclusiva di quel capolavoro che è Il pianeta delle scimmie, dove l’emblema di New York simboleggia la volontà dell’uomo di andare oltre la propria capacità di autodistruzione, ricollegandosi alla fine di ogni epoca ai valori ancestrali che costituiscono da sempre l’Anima Mundi, per dirla con Platone, che di miti se ne intendeva.
Ogni civiltà hai poi innestato su un bagaglio di sapienza originaria nuova linfa, nuovi miti, rielaborando attraverso uno sguardo sempre nuovo e diverso quegli antichi quesiti, dando vita a capolavori immortali, dalle tragedie di Shakespeare alla Commedia dantesca, da Moby Dick a Robinson Crusoe. La metafora del viaggio, in particolar modo attraverso le perigliose vie del mare, costituisce da sempre una prospettiva privilegiata da cui osservare e descrivere le infinite sfumature, che a tratti divengono drammatiche, dell’animo umano, che riesce comunque, nonostante venti contrari e approdi infelici, a rimanere saldo e attaccato visceralmente alla vita anche laddove Thanatos spieghi implacabile le sue ali.
L’uomo più furbo del mondo
Fiumi di inchiostro sono stati versati su quel capolavoro insuperabile che è l’Odissea, ma a parer mio non saranno mai abbastanza, data l’incredibile ricchezza stilistica, letteraria, storica, mitologica … e potrei continuare a lungo, del poema omerico, che il mio cuore auspica che persino fra mille anni venga ancora letto attraverso le pagine, magari ingiallite, di un libro cartaceo, perché ogni altra versione altro non è che un surrogato che toglie poesia all’incontro d’amore fra il lettore e l’oggetto della sua passione, che deve poter essere accarezzato, annusato, posseduto, dal suo amante.
Il viaggio di Ulisse, come Mussapi sottolinea ampiamente, non è solo la metafora dell’incessante ricerca di sé stessi, rappresenta anche la guerra perenne fra visioni del mondo, fra chi, come lo scaltro figlio di Laerte, proiettato com’è verso il futuro, verso la scoperta continua di nuovi orizzonti, con fatica si adatta alla realtà e diviene il simbolo di tutti coloro che precorrendo i tempi ne pagano il prezzo dovendo scontrarsi con la monoculare visione incarnata dai Ciclopi, che in tutte le epoche si aggrappano a ciò che gli è noto, perdendo così la bellezza dell’abbandonarsi all’ignoto. Ulisse non teme di perdere la rotta e sé stesso neppure di fronte alla voce suadente delle Sirene, che simboleggiano ciò che le donne rappresentano agli occhi degli uomini, ovvero un intreccio insondabile di bellezza e oscurità, un enigma mai del tutto decifrabile. Queste misteriose creature, Ulisse ne è perfettamente consapevole, esercitano un fascino a cui con le umane forze è impossibile resistere, perché il loro canto è foriero di promesse di felicità sconosciute, ed è qui che l’uomo più furbo mostra tutta la sua superiorità attraverso uno stratagemma ben noto … le corde che lo tengono saldamente legato altro non sono che i richiami del logos a proseguire il suo cammino senza avventurarsi in territori da cui è impossibile fare ritorno.
Al di là delle colonne d’Ercole
Faust, invece, protagonista della celeberrima opera teatrale di Christopher Marlowe, viene delineato, ne La voce del mare, come l’elemento che fa da contraltare al personaggio di Ulisse. Il dottor Faust infatti rappresenta l’uomo che nella sua avida sete di conoscenza, che trasmuta però in delirio di onnipotenza, perde l’orizzonte del limite e confonde la legittima aspirazione all’Infinito con l’ipertrofia parossistica del proprio ego.
“La noia è come il blues, ti fa pensare a Dio”, canta Masini, che tratteggia poeticamente la nostalgia struggente dell’uomo che cerca il senso della propria storia e non accetta la superficialità come prospettiva possibile della sua essenza ontologica, e che vuole scavare in profondità per ritrovare le radici della propria bellezza originaria e originale, proprio come Faust che però nella tentazione atavica dell’unicità perde ciò che salva l’uomo da sé stesso… l’incosciente ma necessario atto di fiducia e di abbandono nell’altro. Anche l’amore per Faust diviene un groviglio di sensazioni prive di quel pathos che rende l’unione dei corpi un’armonia di anime che traghetta lo spirito verso il mistero dell’indefinibile. L’abbraccio al fantasma di Elena di Troia non è altro che il tentativo dell’uomo di carpire ciò che non gli appartiene, stringendo fra le mani nient’altro che l’amarezza di un desiderio rubato.
L’alba di una nuova Itaca
Il succo gustoso del libro di Roberto Mussapi sta tutto fra le righe pesate una ad una per rendere questo nostro sorvolare fra le epoche avvincente ma bevibile in un sorso. Il messaggio che La voce del mare vuol lasciare nel lettore è chiaro e preciso, occorre dimenticare sé stessi per un lungo attimo per potersi ritrovare come creature ritornate innocenti che approdano avidamente alle rive della conoscenza. L’essenza profonda della vita altro non è che l’attesa di risposte sempre nuove a domande mai uguali. L’essere umano è un groviglio inestricabile di desideri spesso inconfessabili e che tali devono rimanere, nascosti fra le pieghe dei nostri pensieri segreti, perché altrimenti rischiamo di farli svanire come Euridice per l’impaziente ardore di Orfeo.
Ogni nostro nuovo giorno dovrebbe essere una strenua lotta contro chi vorrebbe farci credere che la realtà sia un semplice susseguirsi di attimi senza scopo, e come Moby Dick dovremmo resistere a coloro che vorrebbero trasformarci tutti in formichine laboriose di speranze e sogni altrui.
Non esistono due Itaca gemelle, ogni approdo è unico, come lo è ogni viaggio alla scoperta di sé stessi che va compiuto necessariamente in solitaria, portando con noi spesso più dolori e affanni che gioie. La felicità che avremo faticosamente conquistato in questo itinerario dell’anima però nessuno potrà rubarcela, perché sarà il netto di un destino che non sempre si può scegliere ma che in ogni caso va fronteggiato a viso aperto, perché nessuno che affronti la navigazione con autentico coraggio ne verrà sopraffatto, forse sconfitto ma mai perdente, perché chi spicca il volo come l’albatro di Coleridge non conosce più né lutto né affanno, ma solo l’Aurora di un domani sempre nuovo.
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