Nell’ultimo Novecento il melodramma è diventato luogo di spericolate attualizzazioni. La storia del teatro contemporaneo, le sue più audaci scelte sono spesso nate nel crogiolo delle regie operistiche, nella più apparentemente vieta e immobile delle forme d’arte. Piccola storia recente di una forma di espressione artistica viva e attuale…
Il 20 dicembre del 1949 al Teatro San Carlo di Napoli (nella foto) è in cartellone Nabucco di Giuseppe Verdi, opera famosa, e cruciale nella storia dell’unificazione italiana. Erano gli anni della nuova rinascita, con la guerra di liberazione appena terminata, vissuta ancora come naturale prosecuzione del Risorgimento. La messa in scena è di grande livello e il pubblico è coinvolto sino allo spasimo già dall’ouverture, pezzo forse troppo fragoroso ma irresistibile. Del resto, dirige un maestro raffinato e insieme vigoroso come Vittorio Gui, l’interprete di Nabucco è una star indiscussa, quel Gino Bechi che in scena era un funambolo, e poi nel ruolo di Abigaille figura una giovanissima e già fulgente Maria Callas. Cast strepitoso e, di conseguenza, temperatura emotiva altissima in uno dei più importanti teatri italiani, dove si è compiuta buona parte della storia del melodramma.
Una sera predestinata
Forse quella sera del 20 dicembre era predestinata e infatti, durante, manco a dirlo, il fatidico coro “Va pensiero”, già a metà dell’esecuzione il pubblico esplode, applaude, sembra voglia salire sul palco, cantare insieme ai coristi. L’esecuzione comunque prosegue e, spenti apparentemente i clamori, il coro va verso la sua conclusione: “o t’ispiri il Signore un concento che ne infonda al patire virtù“. Appena terminata la frase musicale, dopo una sorta di pausa mistica, prevedibile ma imprevista, una voce grida: Viva l’Italia. Il teatro non aspettava altro, il pubblico ricomincia ad applaudire con tanta forza che il microfono va in distorsione, il suono si accartoccia. Il bis, richiesto a gran voce, è inevitabile. L’Italia è libera e pronta a vivere la riconquistata libertà.
Racconto questa scena poiché è una didascalia sin troppo esplicita di quello che il melodramma ha rappresentato per la storia italiana, sempre. E, non a caso, si è già fatto riferimento a quanto abbia contribuito alla causa risorgimentale. Mi piace ricordare, a questo proposito, il capolavoro di Luchino Visconti, Senso (da una novella di Camillo Boito), e il suo folgorante inizio con i bouquet tricolori lanciati dal loggione in faccia agli ufficiali austriaci e agli aristocratici italiani collaborazionisti, al termine dell”infuocata cabaletta “Di quella pira” durante l’esecuzione de Il trovatore.
Da spettacolo popolare a teatro sperimentale
Ma è del ruolo del melodramma dal secondo dopoguerra ad oggi che mi piacerebbe dire di più, perché è nell’ultimo Novecento che esso compie un’altra delle sue innumerevoli metamorfosi: da spettacolo diventato ormai popolare, dunque inviso agli snob e ai puristi, si trasforma nel contempo in teatro sperimentale, luogo di spericolate attualizzazioni. È un processo che ha visto inusitati salti in avanti e dolorose ridefinizioni, quando, accanto agli spettacoli tradizionalisti dei teatri più ancorati al passato, in molte parti d’Europa si sono via via affacciate produzioni innovative, con messe in scena spostate nel tempo e nello spazio.
Oggi siamo abituati a discutere delle audaci regie operistiche di Michieletto, di Livermore, del compianto Vick, ma questo processo di sperimentazione va avanti da decenni, eppure molti non se ne sono accorti. Risale al 1975 la rivoluzione proposta da Patrice Chéreau a Bayreuth, nella culla dell’opera wagneriana: è quello lo spartiacque che porta il teatro d’opera nel pieno della storia interpretativa del Novecento. Da quel momento, ciò che definisce la cultura teatrale e non solo, deve passare inesorabilmente dal melodramma. Strano a dirsi, ma la storia del teatro contemporaneo, le sue più audaci scelte, sono spesso nate nel crogiolo delle regie operistiche, all’interno della più apparentemente vieta e immobile delle forme d’arte.
Penso quindi alle regie di Peter Sellars, alla fine degli anni Ottanta, al Don Giovanni di Mozart ambientato ad Harlem, con il protagonista e Leporello interpretati da due gemelli identici; una scelta dalle infinite suggestioni: il dilemma del doppio, il bene e il male che si scambiano le parti. Oppure penso al suo Giulio Cesare di Händel, ambientato in un medio oriente funestato dalla colonizzazione americana e con lo stesso Cesare in veste di presidente americano, ineffabile imperialista, come d’obbligo.
Il ruolo della scuola italiana
Non possiamo dimenticare, in tale processo, il ruolo della scuola italiana, antesignana di tante innovazioni ma poi, purtroppo, affondata nella grande palude culturale degli Ottanta, il decennio di ogni regresso possibile.
Se ripartiamo dallo stesso Visconti, con la sua Traviata del 1955 alla Scala, sempre con la Callas, non possiamo non parlare della novità di quella messa in scena: protagonisti veri, senzienti, in una Parigi amara e dolce, vittime fragili come in un dramma di Cechov. E poi il grande impegno di Strehler nel teatro d’opera, con regie di rara intelligenza: una su tutte il Macbeth (1975) con la direzione del suo grande amico Abbado. Un Macbeth dove le scelte dei personaggi sono esplorate in chiave psicoanalitica, perché è dalle scelte dell’uomo solo, ancorché potente, che nascono le conseguenze collettive delle sue azioni, la Storia. Quel Macbeth sembrò a molti il frutto di una sorta di spiritismo, come se Verdi, Abbado e Strehler avessero tra loro parlato in sogno di come mettere in scena il dramma shakespeariano nella sua forma perfetta.
E ancora con Carmelo Bene, l’opera trova una sua nuova definizione come luogo arcano, dell’altrove. Nelle sue proposte visive, le arie dei melodrammi, spesso poco conosciute, animano una realtà disfatta, eliotianamente, dando voce ad un mondo sospeso tra vita e illusione di vivere. In questo senso, il melodramma interpreta al meglio questa funzione, fatto com’è di azioni non agite, di vite solo immaginate, di vicende accadute o forse no (basti pensare a Il trovatore, dove, come in una ballata, tutto è già accaduto mentre ancora lo si racconta).
Maturità e maniera
Oggi, dicevamo, il teatro di sperimentazione è in una fase matura e, in alcuni casi, se ne intravede pure uno scivolamento verso la maniera. In ogni caso, suscita ancora clamori e scandali da cui nascono fazioni e posizionamenti, a dimostrazione che il melodramma è oggi una forma di espressione artistica viva ed attuale. Nello stesso tempo, l’opera resta espressione d’arte popolare: non sono più i tempi dei Carri di Tespi o delle grandi produzioni portate in giro per l’Italia ancora rurale degli anni Cinquanta del secolo scorso (mio padre mi raccontava di epiche sfide a scopone scientifico con il grande tenore Carlo Bergonzi, venuto a cantare pure nel profondo entroterra siciliano, e a giocare a carte con le comparse). Ciononostante è ancora abbastanza facile trovare appassionati di tutte le età che conoscono a memoria i libretti delle opere più famose.
Il melodramma, quindi, è ancora un fatto culturale di cui bisogna parlare: un’invenzione che, a quattrocento anni e più dalla sua nascita tra la Firenze della Camerata de’ Bardi e la Mantova di Monteverdi, ha innervato tutto il mondo e che, pervicacemente, vive nella reinvenzione di sé stesso.