Libro enigmatico, colto, mai pedante, “Il senso di una fine” di Julian Barnes. Il tema dominante? Il rapporto con la memoria, con i limiti propri e altrui, oltre a un’analisi della salvifica rivincita della mediocrità sull’intelligenza e del rapporto tra il sopruso dell’inganno su di essa…
Il senso di una fine di Julian Barnes rappresenta, senza timore di smentita, una straordinaria prova dello scrittore, meritatamente premiato, nel 2011, con il prestigiosissimo Man Booker Prize.
Barnes scrive un libro enigmatico, a tratti indisponente, snervante nel seguire le elucubrazioni della voce narrante, che esprime in modo minuzioso il carattere e le attitudini intellettuali del protagonista Tony Webster.
Un libro colto, senza essere aulico, mai pedante. Una scrittura evoluta, complessa, ma non complicata che si esplica in un romanzo perfettamente circolare.
Tutto è seminato da Barnes al lettore che, però, dovrà fare tutto da sé per scoprire la storia, soprattutto nel finale. In numerosi passi infatti sarà frastornato, depistato, senza che se ne accorga in una prova eccellente di narratore inaffidabile dell’autore inglese.
Tensione costante, tecnica perfetta
È eccezionale anche la tensione che Barnes mantiene costante per tutto il tempo della narrazione e con cui incatena l’attenzione del lettore, conducendolo passo, passo attraverso i diversi punti di svolta della storia.
Barnes gioca, speculando sul concetto che nella vita è bene che si preservi un mistero, che l’uomo non setacci così tanto la propria esistenza con la ragione, in modo così estenuante da ritorcerglisi contro: “l’accumulo” del corso della vita è il concetto che guida la storia e le da senso. Con un inizio decisamente lento e un tono che risuscita molto le tipiche atmosfere del passato culturale inglese, il romanzo procede poi spedito, cambiando anche tono, inforcando la via di una analessi semiserrata con cui l’autore introduce, in modo magistrale, un escalation di tensione del narrato il cui livello rimarrà altissimo fino alla conclusione, creando un ritmo spiazzante che incolla il lettore al testo.
Il lettore incastrato
La trappola di Barnes incastra senza scampo il lettore: più esso si avvicina a conoscere la verità, o una plausibile forma di essa, più il ritorno su pensieri e scene passate, già vissute dal protagonista, seppur narrate apparentemente senza importanza nel corso della storia, lo riallontanano. Ed è qui che è facile cedere all’irritazione se non si riflettesse della grandezza della capacità di scrittura dell’autore. Tutto prende senso, anche nelle pseudo-interruzioni che conducono la lettura spedita verso il finale, come un’unica cavalcata sull’onda emotiva del desiderio di arrivare alla soluzione dell’enigma che ha preso forma sulle pagine.
Nei ritorni al passato si cela, parzialmente, l’esito della storia, si trova quell’indizio interstiziale che il protagonista continua a non cogliere, continuando così a negare di riflesso al lettore la soluzione. Solo a ritroso, il lettore si renderà conto di ciò che aveva, a torto, trascurato, allontanando la comprensione del finale.
Un uso superbo dei tempi di svelamento narrativo, dei punti di svolta.
L’antagonista? Una mantide, ma…
L’antagonista di Tony Webster, è Veronica Ford, un personaggio femminile dominante, forte sulla pagina, ammantato di mistero e, a tratti, anche di patologia; scaltra, è la quintessenza dell’ambiguità, al tempo stesso vittima e carnefice di sé e degli altri. Lo scrittore la descrive come una mantide sulla quale il lettore, forse, dovrà parzialmente ricredersi.