Una mappa di quell’inestricabile labirinto in cui sembra ancora possibile intuire la forma evanescente di Roberto Bolaño: è il più recente libro di Alessandro Raveggi, “A Città del Messico con Bolaño”. Una sorta di guida per chi vuol viaggiare tra contraddizioni inconciliabili, canto d’amore intriso di malinconia
Custodisco con affetto quella sensazione di «impossibile nostalgia» con cui si apre il nuovo libro di Alessandro Raveggi, A Città del Messico con Bolaño (127 pagine, 15 euro), pubblicato da Giulio Perrone editore. È la definizione migliore per chi si tiene costantemente in un precario equilibrio tra due (o più) luoghi che ha imparato a chiamare casa: il senso che la propria vita abbia una forma e un significato solo in una certa geografia – che diventa inevitabilmente sentimentale – e la consapevolezza che essa non possa davvero esaurirsi lì, soltanto lì, ma rimanga costantemente contesa tra gli spazi in cui è rimasto un frammento del passato. Una nostalgia impossibile, quindi: perché quando si è in un posto si tende verso un altro e viceversa; perché i sentimenti sono spesso contraddittori; perché non sarebbe comunque sufficiente, esaustivo, il ritorno, ma sempre la tappa di un viaggio che dura una vita intera. Eppure nostalgia: di quello che siamo stati in certe strade, di chi potremmo ancora essere e di quello spirito – difficilissimo da raccontare – che abita ogni spazio a modo proprio. È forse tutto qui il fascino dei luoghi: qui e nei profumi che inondano i negozi e i ristoranti, nelle folle che corrono, nel tripudio dei colori o nell’assenza degli stessi – nella particolare geometria di incastri che li rende unici e mai uguali a se stessi. Alessandro Raveggi deve averlo imparato negli anni, tra un viaggio di andata a Città del Messico e uno di ritorno a Firenze. La sua identità si è costruita (e continua a costruirsi) nel punto preciso che incrocia questi due itinerari, e da qui parte anche il suo nuovo libro, che costruisce una mappa di quell’inestricabile labirinto in cui sembra ancora possibile intuire la forma evanescente di Roberto Bolaño.
Dare un senso a un groviglio
A Città del Messico con Bolaño è quindi una sorta di guida per chi vuole viaggiare, concretamente e non, tra le vie di un luogo fitto di contraddizioni inconciliabili. Raveggi inizia a scrivere mentre è chiuso a casa durante la pandemia, ripercorrendo la città su Google Maps e tentando una serie di percorsi strutturati sottoforma di mappe: passa tra gli studenti che hanno agitato il ’68 e tra le donne che vengono violentate nei sobborghi, poi insegue Roberto Bolano tra le vie della città. La scrittura fa da ponte con una destinazione altrimenti inaccessibile, diventa esplorazione e dichiarazione d’affetto, ma anche tentativo di dare un senso a un groviglio frantumato di viottoli, cibi, case e storie «sempre al bordo del collasso»:
Forse Città del Messico è a tratti la città letteraria perfetta, la città al bordo del caos, che sa contenere il nostro caos naturale interiore, come direbbe Calvino. La metropoli perfetta, quella che sta sprofondando nel suo fango, ma che anche resiste nelle sue differenze e ci fa resistere. La giungla di giungla e asfalto, di sterminate buganvillaee e glicini in festa, di viadotti e vedute d’aereo di quaranta minuti, pullulante di schifo, pattume, macchine rotte che stanno in piedi nella loro carrozzeria arrugginita, dalle pance e dai serbatoi sfondati. La giungla di dolcezze, di patii verdeggianti di ambasciate e centri culturali […] spazio antropico, spazio entropico, spazio di troppo umano e di sua sparizione, dove si fa troppo e non si fa mai abbastanza contro l’oblio.
Un universale senso dei luoghi e dell’appartenenza
Il racconto di Alessandro Raveggi assume sempre più il senso, capitolo dopo capitolo, di un canto d’amore intriso di malinconia. Una sorta di risarcimento – o lunga lettera di gratitudine – a un luogo che, pur con le sue storture, resta magnetico e incomprensibile per chi ha imparato ad abitarlo. Anche l’amore che trasuda dalle pagine è quindi, a suo modo, un amore impossibile: perché gli spazi, come gli esseri umani, sono fatti di chiaroscuri, di ombre che talvolta sovrastano le zone di luce, e ancora di marciume e splendore, nostalgie e malsopportazioni. Città del Messico diventa, in questo, archetipo di qualsiasi città sentimentale: «città felice nel ricordo», come la definiva Sereni; forza attrattiva e repulsiva allo stesso tempo. E se in questo libro si intuisce un senso dei luoghi e dell’appartenenza che è universale, condiviso – ma anche profondamente intimo, personale: è ad Alessandro che si rivolgono Franco, Diego, Irasema e tutti gli altri, durante il racconto – è il tentativo di restituire un’immagine ciò che accompagna la narrazione e la porta a compimento. L’esperimento di Raveggi sembra così ripercorrere le tracce lasciate da Calvino in una delle città invisibili, Eudossia: la città dove «perdersi […] è facile: ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filo cremisi o indaco o amaranto […]. Ogni abitante di Eudossia confronta all’ordine immobile del tappeto una sua immagine della città, una sua angoscia, e ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschi una risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino». Ecco, A Città del Messico con Bolaño svolge esattamente la funzione di questo tappeto. E in fondo, ogni racconto non è che questo: un intreccio che tenta di ordinare un groviglio sentimentale ed esistenziale; un modo per orientarsi nel labirinto smarrendosi di continuo.
Stazioni per trovare l’uscita: non esistono.
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