“Le ultime ore di Ludwig Pollak”, scritto da Hans von Trotha, è un romanzo all’altezza della vita romanzesca del leggendario archeologo, collezionista e mercante ebreo, innamorato di Roma. Le autorità vaticane avrebbero potuto salvarlo dal rastrellamento del ghetto della capitale, nell’ottobre 1943, lui decise di non accettare un rifugio. E all’emissario venuto ad aiutarlo racconta un’esistenza unica, amicizie incredibili, l’amore per l’arte e la ricerca, risposta ed eredità contro la furia nazista…
Ebreo di Praga, di lingua tedesca – sì come il più Famoso di tutti, anche non di Praga – archeologo e antiquario, collezionista e mercante, eloquente e coltissimo, buon amico di Sigmund Freud (grande appassionato di archeologia), viaggiatore, protagonista, nel primo Novecento, della vita culturale di Roma, dove visse gran parte della sua vita, con la sola parentesi degli anni della prima guerra mondiale. Ludwig Pollak è una figura leggendaria; inghiottito dall’orrore nazista in un lager con moglie e figli – nella capitale, vicino alla chiesa dei XII Apostoli, dove abitavano, quattro pietre d’inciampo ricordano la loro atroce fine nelle camere a gas – Pollak era stato in precedenza colpito dall’introduzione delle leggi razziali, iniziando a essere estromesso dall’accesso alla Bibliotheca Hertziana, l’istituto tedesco di storia dell’arte a Roma: un ebreo qualunque negli anni più ignobili, costretto a procurarsi con qualche escamotage l’insulina per la moglie diabetica. A nulla era valso, per salvarlo, l’interessamento dell’amico Bartolomeo Nogara, direttore dei Musei Vaticani, con cui aveva messo a punto, decenni prima, una donazione rimasta nella storia, quella del braccio marmoreo del celeberrimo gruppo scultoreo del Laocoonte, opera d’arte antiche fra le più famose al mondo: il pezzo, rinvenuto nella bottega di uno scalpellino, permise di integrare il capolavoro che ancora oggi è possibile ammirare ai Musei Vaticani.
K. ed F.
Un personaggio dalla vita così romanzesca – avi poveri del ghetto, viaggi in Oriente, amicizie con ambasciatori e miliardari, onorificenze ricevute dai grandi della terra, Goethe come conforto – meritava qualcuno che sapesse raccontarlo, anche un po’ inventarlo: occorreva un romanzo alla sua altezza e si è materializzato grazie ad Hans von Trotha, e a Sellerio, che ha pubblicato il suo Le ultime ore di Ludwig Pollak (188 pagine, 14 euro), affidandone la traduzione a Matteo Galli. Giornalista e storico, von Trotha s’incunea nella misteriosa mancata salvezza dell’archeologo e della sua famiglia, una salvezza possibile perché, alla vigilia del rastrellamento del 16 ottobre 1943, a Roma un emissario della Santa Sede aveva messo a disposizione un’auto e un nascondiglio. A K., un ex professore tedesco, chiamato a tirarlo fuori dai guai, il Pollak di von Trotha racconta pezzi di vita, scorci di persone incontrate, il dolore di non aver potuto insegnare, la centralità dell’arte e della ricerca nella vita, la cultura come baluardo contro il male. K., che riferirà a un monsignor F, uomo delle alte sfere vaticane, però prova ad accelerare la fuga, la lista di Theo Dannecker, pupillo di Eichmann, è pronta e la rappresaglia dei nazisti contro la comunità degli ebrei romani è imminente.
La prego, adiamocene via di qua, ripetei ancora una volta. Aveva avuto abbastanza tempo a disposizione per ricordare e raccontare. Gli era costata una grande fatica ma il racconto, era questa comunque la mia impressione, gli aveva conferito anche molta forza.
Un eroe, non una vittima
Un po’ Dreyfus, un po’ Laocoonte stesso, il boemo Ludwig Pollak – il cui mentore era un altro mito, Giovanni Barracco – spiega in un densissimo passaggio del romanzo proprio il ritrovamento del braccio destro della statua raffigurante il sacerdote troiano. E chiarisce d’essere – lui stesso – un eroe, non una vittima. Forse non sfugge proprio per questo a ciò che lo attende, i “serpenti marini” nazisti, quello che chiama “il destino di un popolo”. In queste righe potrebbe esserci, almeno secondo l’ipotesi romanzesca, la chiave di una vita, non una vita qualunque.
È il braccio destro a decidere. Soprattutto nel Laocoonte. Non della vita e della morte, la morte per Laocoonte è sicura. Ma il modo in cui lui affronta il serpente, quel che ci fa e quel che il serpente fa con lui, è il braccio destro a determinarlo, ovvero se il condannato a morte sia ancora un eroe o solo un essere umano, magari un uomo particolarmente degno di compassione, una vittima.
È nel braccio destro che risiede la verità. Può suonare folle, ma è così. per questo è stato così impressionante vederlo lì per terra in mezzo ad altri frammenti di marmo.
Calma irreale e pathos
La storia di un indugiare è condotta in modo magistrale da Hans von Trotha, il suo Pollak tergiversa con calma irreale dinanzi alla barbarie. Avere ricordi chiari in modo cristallino e un interlocutore valente e affidabile, K., a cui raccontarli sommessamente, sembra essere per il protagonista più importante della sua stessa vita. Il futuro inesorabile non conta, l’andamento affascinante della conversazione prevale su ogni cosa, il pathos affiora a tratti (specie nei confronti di Roma, “la terra benedetta della mia vita”), la sterminata cultura sempre.
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