Vedi Napoli e poi… scrivi. Dieci racconti di autori partenopei sulla propria città compongono la raccolta “I camminatori”. Per parlarne va in scena un esperimento, un patchwork di citazioni che restituiscono il Dna di ogni autore e i capitoli di un’unica trama. Leggere per credere…
Mi rosolo nel dubbio, incerta sull’approccio migliore per tratteggiare uno schizzo, il più nitido possibile, de I camminatori, l’antologia di 167 pagine (14 euro) – curata da Marco Perillo – in cui l’editore Polidoro ha racchiuso dieci storie su Napoli. Mentre valuto quale delle due possibilità che ho messo nel piatto sia la più proficua, ovvero quella canonica di menzionare, seguendo l’ordine dell’indice, i singoli autori e riassumerne i racconti, oppure la seconda, più temeraria, di considerare I camminatori come un unico romanzo anziché una silloge e riflettere, quindi, sui singoli contributi come fossero capitoli di un’unica trama, con protagonista la città di Partenope, mi sovviene ancora un’altra pensata. E se provassi a realizzare a mia volta una micro-novella scippando brevi scampoli da ciascuna storia, incollandoli poi insieme, magari in ordine sparso? Vediamo dove approda il tentativo.
Il tentativo di una micro-novella
Stanchezza, insofferenza, rifiuto, nausea, pura angoscia, e un’istintiva repulsione simile al tocco improvviso di mani e dita mollicce su una spalla per farmi girare, mi presero quell’inverno. (…) Persisteva quel sentimento di spaesamento nei confronti di ogni pietra che avevo sempre sentito mia. (…) La mia percezione di Napoli era alterata, distrutta, cambiata: modificata da una resistenza e persistenza a vivere a Napoli che mi aveva reso prima così ubriaco di bellezza di monumenti, chiese, palazzi, opere d’arte, pedamentine, affacci commoventi, stratificazioni greco-romane, sveve, angioine, normanne, aragonesi, borboniche, sventramenti, riqualifiche, da restarne stordito, e poi insensibile e distante?
Spesso ne discutevo con amici, ragionavo sui luoghi comuni da sempre mortificanti e riduttivi per Napoli, e che ora erano esplosi nella loro evidenza, esaltati dalla loro magnificenza per essere consegnati come reliquie da adorare ai turisti che arrivavano in città; quei turisti consapevoli che avrebbero trovato suoni, odori, immagini, volti, atteggiamenti espressioni che corrispondevano esattamente a ciò che si aspettavano e gli avevano raccontato e che solo dire “ Napoli”, come incantesimo, come parola chiave, portava con sé.
Era il diffondersi dell’immagine precostituita e consegnata a chi arrivava e la trovava proprio come se l’aspettava, a cancellare Napoli dalla mia mente? (…) Ragionavo su come avesse ancora un lato insolito, inesplorato, imprevisto, pronto a sbucare da un momento all’altro per sorprendermi, aggredirmi, cancellare ogni mia convinzione. (…) Così mi ostinavo a passeggiare, camminare per la città, scegliere rotte nuove, inconsapevoli, affidandomi all’istinto, al mio stesso passo capace di individuare insolite direzioni. Sicuro che qualcosa avrei trovato. Vedevo il volto di una bambina appena nata che mi diceva: “Sarò donna, nascerò tutte le volte che mi vedrai.» (Razzano)
Porto Rosa Maria al centro del rumore. Si muove piano, si vergogna. La fermo e da quel momento non parlo più. Le mostro la prima figura, le scuoto le spalle, la anticipo. I tamburi e i canti mi afferrano e sto dentro al ballo con mia figlia. (Rinaldi)
Il vicolo è stretto e cieco. C’è un’auto parcheggiata. C’entra giusta giusta. Dietro, dipinto sul muro frontale, si intravede la figura di un angelo. È un angelo realizzato dall’artista Zilda. Sei a Napoli, sento. Sì, sento le voci. Vedo lo sportello che si apre e il cherubino (…) che a fatica esce dall’abitacolo. (…)
Sono il tuo angelo custode. (…) Lo so che Napoli è come un Aleph. Il mondo si riversa a Napoli. Mi mescola e rilancia i suoi raggi nel mondo. Ma adesso ‘sti raggi tornano indietro nell’aldilà?
Fermati e ascoltami: Napoli è senza tempo. Non te lo dovrei dire io. Qui si impara che tutto ritorna e nulla si distrugge. Tutto resta, coperto e schiacciato. Ma sta qua, e prima o poi viene fuori. (Treccagnoli)
Cercavo una via di fuga, una cura, qualcuno, anche solo una parola, che mi salvasse. Vivevo a metà tra veglia e sonno, e in quello stato di sospensione scoprii che la città di giorno e la città di notte sono due luoghi differenti. Ammettiamo che ogni città abbia una sua personalità specifica, composta dalle persone e dalle storie che la abitano: allora dovremmo anche ammettere che una città avrà un’anima, e in quanto anima avrà dei sogni e dei ricordi. Questi diventano più visibili e udibili di notte, quando le immagini e gli altri suoni si fanno da parte. Mentre il cielo sbiancava alle spalle del Vesuvio, giocai a vedere la città come una foresta. I palazzi avevano radici invisibili che affondavano nella terra, che si cercavano e si intrecciavano come mani di amanti. Avevano tronchi che vincevano la gravità e crescevano verso il cielo. Avevano fronde fitte e inestricabili nei comignoli, nelle antenne paraboliche, nei fili per i panni, nelle verande abusive. (…) La città è un organismo vivente. Sogna e ricorda, si ammala e muore. E come la racconto Napoli? Pensavo. Come si racconta un sogno? (Petti)
Fu cominciando ad arrovellarci attorno a questa domanda che (…) siamo diventati, (…) dei cacciatori di storie. Camminatori e cacciatori. Napoli ha una storia millenaria ma è come se sotto questa storia si muovessero tanti percorsi o tunnel segreti, nei quali è conservato più di quanto viene esposto (Del Tufo)
I Vergini, convulso quartiere nel cuore antico di Napoli, dopo mille vite già vissute, cambiando ogni volta pelle, oggi è un colorato suk. (…) Pedoni, merci pile di scatole parcheggiati in ogni angolo. (…) Formiche in fuga. Ansia, gesti, rumori, respiri, fruscii uguali a nient’altro, una specie di stazionario ammutinamento che ammicca a qualcosa di sotterraneo e nascosto, quasi il sospetto di non potersi risolvere in quella spettacolarizzazione di movimenti e desideri. (De Rienzo)
«Sai che non sono mai stato al Rione della Sanità?» «Ma veramente fai? Non puoi non conoscerlo. Uno di questi fine settimana ti ci porto». Cominciarono così le nostre passeggiate mattutine. La Sanità era un tempo la valle dei morti della città. (…) Mai avrei potuto immaginare che anni dopo, non soltanto in quel luogo, frotte di visitatori sarebbero giunti per conoscere le bellezze nascoste del rione. (Perillo).
Affollavano i Quartieri Spagnoli e raggiungevano Piazza Borsa attraversando via Toledo in un quarto d’ora. Quei pochi minuti separavano mondi diversi: la via del passeggio con negozi di abiti e gioielli, bar tavolini all’aperto, i Quartieri della povera gente, la città degli affari, degli uffici, delle banche. (Alfano).
Le parole mi rimbombavano nel cervello come frammenti di un racconto improbabile, surreale, sconclusionato. Salendo verso Spaccanapoli, cercai di rimetterli in ordine. (Rua)
Guardo i miei piedi. Un passo dopo l’altro, parlano di direzione, progetto, intenzione. (…) Fa sempre così Napoli, mi inganna con indovinelli che non hanno mai una risposta esatta. (Zunica)
Un abito Arlecchino e una soluzione
Credo che l’esperimento possa concludersi qui. Sono pronta a trarre le somme. Faticoso più del previsto il taglia-e-cuci. Soddisfatta, però, dall’abito Arlecchino che ne è uscito, il quale, inaspettatamente mi offre una soluzione conciliante rispetto le due ipotesi di lavoro iniziali.
Mi permette, infatti, di passare in rassegna uno ad uno autore e racconti, con una operazione di carotaggio fruttuosa nel fornire indizi su ciò che i lettori si troveranno tra le mani. Ciascun brandello rivela, nella struttura, nella lingua, nell’immaginario e nella storia il filamento di DNA dello scrittore/scrittrice che lo ha partorito. C’è, infatti, quello dal taglio più spiccatamente giornalistico, quello più prossimo al giallo, quello che vibra di realismo magico: insomma, tale genitore, tale figlio.
Anche la tesi di leggere I camminatori a mo’ di unico romanzo pare aver trovato in questo modo una pezza d’appoggio. L’ordine con cui sono stati inseriti nell’antologia evidenzia come i singoli testi funzionino ottimamente alla guisa di specifici elementi della narrazione:
San Gregorio Armeno di Rinaldi è una situazione iniziale perfetta. L’angelo in porta di Treccagnoli e La vedi Napoli di Razzano esordi da manuale. Notturno napoletano di Petti, Io e Sergio tra le madri di Del Tufo, Come diamante di De Rienzo, Mason on the Hill di Perillo, Delitto a San Martino di Alfano e infine Vico Pensiero di Rua riproducono il momento di massima tensione narrativa.
Mi concedo a questo punto una “licenza poetica”, estrapolando Oracolo a Port’Alba, il quarto racconto, firmato da Monica Zunica. È la migliore conclusione a questo lunghissimo commento.
La prima cosa che di colpo ricordo di me stressa è che amo i libri. (…) Ai libri chiedo consiglio. (…) Credo davvero che siano in grado di percepire i sentimenti di chi li tocca, in fondo ogni parola scritta su di loro è nata da passioni e molto spesso da colori incolmabili.
(…) Guardo la copertina. (…) Non mi aspettavo un libro in particolare. (…) Adesso, però, mi rendo conto che è proprio il libro di cui ho bisogno. Chiudo nuovamente gli occhi e lascio scorrere le pagine lentamente. Mi fermo lì dove sento di dovermi fermare, schiudo gli occhi e leggo le prime parole che attirano la mia attenzione. «L’Immediatezza è la felicità, perché nell’immediatezza non vi sono contraddizioni».
La felice consapevolezza
Non si poteva dire in maniera più nebulosa, ma suggestiva: I camminatori è un istante di Napoli illuminato da una dolorosa immediatezza, ma so che di questa frazione di tempo tutto quello che mi resta è la felice consapevolezza che niente è contradditorio, e il dispiacere che non sia durato di più.
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