Un romanzo di formazione immerso nella natura e dalla lunghissima gestazione, “Non tutti gli alberi” di Gianmarco Parodi. “Questo romanzo pesca tutto nella mia infanzia – spiega Parodi -. L’universalità della letteratura? Parla con voci che a volte non sono le tue. Con rispetto le ascolti, e cerchi di farne qualcosa di buono. I romanzi sono esseri viventi, fatti dei loro organi e tessuti, ma all’inizio nascono come linee, come tracciature. Più l’ossatura della storia è grossa, più ha bisogno di un’impalcatura e di un sistema muscolare resistente”
Non tutti gli alberi sono solo alberi: l’avvertimento del papà ad Alice è questo, ed ecco dunque il titolo del romanzo di Gianmarco Parodi pubblicato da Piemme dopo aver conquistato la finale del Premio Calvino 2021: Non tutti gli alberi (349 pagine, 18,50 euro). Una storia di grande tenerezza e insieme un viaggio di scoperta che si intrecciano nel classico plot del romanzo di formazione e che danno vita a personaggi da inseguire e di cui diventare amici, in una geografia un po’ vera e un po’ immaginaria al cui centro c’è il bosco.
Gianmarco Parodi (nella foto di Chiara Giovanelli), un diploma alla Scuola Holden e diversi romanzi fantastici alle spalle, alterna oggi la promozione del suo romanzo ai corsi che tiene da tempo: trekking letterari, passeggiate narrative e laboratori in presenza e online. È di Sanremo, e della Liguria di Ponente racconta anche in Non tutti gli alberi, portando la protagonista undicenne Alice e il suo amico Pino all’inseguimento del padre di lei, boscaiolo le cui vicende sono in parte ambientate oltre il confine con la Francia, passata Ventimiglia. Storia di crescita e avventura, Non tutti gli alberi racconta di una bambina e del legame forte e particolare con il padre: è un romanzo di dolore, di confini, ma anche di amicizia e accettazione. Abbiamo avuto la fortuna di fare qualche chiacchiera con Gianmarco, alla scoperta del suo libro, ma anche del suo mondo di scrittore.
Hai tenuto tra le mani, scritto e riscritto questo libro per moltissimo tempo. Partiamo allora da questa domanda: come nasce la storia che hai raccontato in Non tutti gli alberi e come si è trasformata? Da scrittore, come è stato tornare così tante volte sul testo?
«Ci ho lavorato tanto, e a volte è stato addirittura nauseante. Tante volte sono arrivato a pensare di avercela fatta, poi mandi la mail a quella casa editrice che non ti risponderà più e aspetti i sei mesi canonici, e non arriva mai niente. Qualcuno a volte ti risponde, e ti dà anche ottimi consigli, trovi persone disposte a spendere cinque minuti e dirti che la storia non interessa ma potresti lavorare su alcune cose. Certo, non la accetteranno, ma ci guadagni un consiglio. La difficoltà di tornare sul testo c’è stata: ci sono state tante stesure e tanti anni in cui sono cambiato e cresciuto. È stata proprio questa la difficoltà, lavorare su un testo che rappresentava un me del passato. Avevo paura di tornare a parlare con Alice senza che mi rispondesse più. Invece, in un certo senso, siamo cresciuti insieme, e piano piano abbiamo mantenuto il nostro dialogo. Io ho capito come doveva fare lei per crescere e diventare una storia che funzionasse, e lei mi ha detto non ti chiudo la porta. Ma non è stato né facile né divertente, anche perché vedevo gli altri intorno a me che pubblicavano e io sono rimasto su questa storia per dieci anni».
Evidentemente aveva qualcosa da dirti!
«Sentivo che aveva bisogno di tempo: mi diceva aspetta e vedrai. Tante volte l’ho abbandonata, non ci ho passato anni interi e quando ci ritornavo ci lavoravo magari tre mesi, e poi basta. Ma, ripeto, non è stato facile».
Questo romanzo racconta di una bambina, del rapporto complesso con suo padre, di un distacco e di un’accettazione, ed è pieno di natura, di orti, giardini e di alberi dove Alice si intrufola. Mi hanno ricordato gli alberi del Cosimo di Calvino. So che è uno scrittore determinante per te.
«Con Calvino c’è un legame: tra i miei laboratori di scrittura conduco anche passeggiate nei luoghi calviniani a Sanremo, per la Holden ho realizzato dei corsi basati proprio sulle opere di Calvino. Insomma, c’è un legame molto stretto e mi ispira sempre moltissimo per tutto quel che riguarda la mia vita, perché miro allo stare in cima agli alberi. Ma per quanto riguarda Alice non credo siano gli stessi alberi: sono altri, che sono da altre parti. Il bosco per me è sempre stato un luogo sacro e particolare, per cui io ho i miei alberi, Italo Calvino ha i suoi, che si dice siano da qualche parte, ma nessuno sa precisamente dove».
Non tutti gli alberi è una storia dove tornano in modo ricorrente tanti oggetti e dettagli. C’è uno zaino blu, un accendino giallo, un poster con un castello e tanti segreti. È una sorta di caccia al tesoro e ben accompagna la ricerca di Alice che sul cammino imparerà molte cose. Come hai lavorato con tutti questi oggetti che si intrecciano alla lettura e al percorso dei personaggi?
«Il nocciolo di questa storia mi è comparso davanti tanti anni fa, e poi dallo scheletro ho iniziato a costruire la vita intorno e a mettere tutto ciò che era necessario per farlo diventare un essere vivente. I romanzi sono esseri viventi, fatti dei loro organi e tessuti, ma all’inizio nascono come linee, come tracciature. Più l’ossatura della storia è grossa, più ha bisogno di un’impalcatura e di un sistema muscolare resistente. Gli oggetti particolari di questa storia mi si sono svelati scrivendo: all’inizio non avevo in mente tutto questo. Pensa che l’accendino giallo, uno degli oggetti più importanti e iconici della storia, è uscito durante una delle ultime stesure, mentre prima non esisteva. Forse serviva proprio lui per chiudere il cerchio e fare in modo che la storia funzionasse: quando ho rimesso mano all’incipit ho capito che Alice stava frugando dentro lo zaino e lì trovava qualcosa».
Possiamo dire che si tratta un po’ di un tuo modo di scrivere e pensare le storie?
«Io adoro scrivere così, ma ci sono scrittori che fanno scalette su scalette e scrivono solo quando hanno tutti gli elementi della storia. Diciamo che sono un po naif rispetto ad altri che si assicurano al 99 per cento la riuscita della storia: ho una percentuale di aborti sulle storie altissima, ma quando imbocco quella giusta lo sento e vedo apparire le cose giuste, come per l’accendino giallo. È un procedimento che è molto legato alla poesia: come forse sai ho creato un collettivo che si chiama Il vivaio del verso, che sto costruendo insieme ad altri ragazzi, e poi ho scritto poesie per conto mio, inserite in qualche antologia. La poesia è una dimensione intima, la tengo come sfogo. Quando la scrivi non puoi pensarla perché è lei che ti deve arrivare ed è la stessa cosa che io poi metto nella prosa: devo sentire che arriva da qualche parte, se sforzo significa che non arriva. Quando poi sento che i tempi sono maturi e la storia si affaccia, e la prosa scorre, capisco che sono sul binario giusto. Poi magari non scrivo per mesi, ma quando accade è il momento di andare. Non capita sempre e non sono un jazzista che si siede al pianoforte e va, magari! Ma a volte capita: Alice, per esempio, mi ha dimostrato che eravamo sulla strada giusta».
Alice cerca cose e insegue segreti e amuleti, e alla fine trova la sua strada. Questo è indubbiamente un romanzo di formazione, e si realizza attraverso una ricerca fin da quando, all’inizio, il padre la aiuta a non guardare le cose per quello che sono Non tutti gli alberi sono solo alberi – e lei, proprio attraverso gli oggetti trovati sulla strada, lo ritroverà. Anche per questo è un viaggio concreto: lei e il suo amico Pino prendono bus, treni, scavalcano un confine. Al centro c’è sempre la natura: ci sono gli alberi, il bosco, l’orto-giardino con cui Alice sviluppa un rapporto particolare. Da dove arriva questo sguardo sulla natura?
«Questo romanzo pesca tutto nella mia infanzia. Ho avuto un’infanzia molto bella che mi manca tantissimo. Certo, non sempre è stata bella ma se potessi tornare a viverne solo un giorno… Ci sono state delle estati molto intense legate ai luoghi come quelli dove vive Alice, dove potevo essere sereno tra le cose e scorrazzare liberamente per le “fasce” in campagna. Alice si infila sotto il fico dell’orto-giardino e sembra che non faccia niente ma è lì che assorbe tutto, e l’orto diventa il bosco, e il bosco è un orto enorme dove lei va a cercare il padre che non trova e dove incontra il fuoco, lo steso dell’orto-giardino. Il rapporto con la natura è fatto di microscopico e macroscopico, come in tutta la storia che ho scritto: è fatto di cose piccole che rappresentano cose grandi e deriva soprattutto da lì, dalle estati della mia infanzia, quando ero libero di girare».
La geografia dei luoghi in questo romanzo riprende non a caso i luoghi dove sei cresciuto. Il libro però li scavalca e arriva in Francia: si addentra in una valle non nominata ma che intuiamo, dove risuonano posti e nomi tra invenzione e realtà.
«Infatti a un certo punto i nomi cambiano: quando Alice e Pino passano il confine non sono più quelli veri, perché anche la dimensione che vive Alice non è più realtà. È tutto reale, ma lei è talmente piena del desiderio che ha, e vede talmente tanti segni, che anche la realtà diventa nebulosa ed è la ragione per cui ho cambiato i nomi dei luoghi».
Sono curiosa di saperne di più su Pino, il compagno di classe di Alice che è stato adottato da una signora, è senza genitori e diventa presto il suo migliore amico, accompagnandola lungo l’avventura.
«Pino rappresenta tutto quello che non è Alice. Ha sofferto in modo diverso da lei e sente quel che sente lei, ma in modo opposto: lei è tutta concentrata e lui è tutto dispersivo, un atteggiamento che riassume nel gesto di alzare le spalle. Ma non è una persona che non c’è, anzi c’è nel momento giusto, ed è l’unico che poteva accompagnare Alice e accettare di credere in quello in cui lei crede e di punto in bianco lasciare tutto e andare con un sacchetto della spesa e basta. Se fossi così, sarebbe tutto più facile! Pino è leggero ma non è stupido o frivolo: anche lui soffre, in un modo suo. E poi, come mi hanno fatto notare, in un romanzo che parla di alberi lui si chiama Pino: non ci avevo mai pensato ma alla fine è così, tu chiedi all’inconscio e lui ti dirà che l’hai fatto apposta, perché Pino è duro come un asse, ed è un albero, per quello Alice lo riconosce».
Il bosco narrativo della scrittura e della lettura, come direbbe Umberto Eco!
«Vero: vedi quanti significati scorrono dentro un romanzo? Le persone lo leggono e ti fanno notare cose: non sei tu che lo scrivi, tu metti dentro quello che sei e che sai, e che ti viene suggerito da voci che non sono le tue, e poi confezioni qualcosa che agisce negli altri. Non puoi partire dal presupposto voglio trasmettere un senso. Non ce la farai mai, è invece a posteriori che ti accorgi di quel che hai fatto. È per questo che dico sempre ai miei ragazzi dei corsi di scrittura di non partire dalla morale e dal significato, ma dai gesti e dagli oggetti. Poi sulla pagina apparirà qualcosa che non avevano idea di voler raccontare, come è successo a me. Chi lo sapeva che avrei avuto bisogno di raccontare una bambina di undici anni che non sono mai stato? Secondo me questa è l’universalità della letteratura, che parla con voci che a volte non sono le tue. Con rispetto le ascolti, e cerchi di farne qualcosa di buono».
Usciamo dal libro e parliamo di come ti stai godendo la pubblicazione. Ti eri immaginato così questo momento?
«È un periodo bellissimo. anche se mi sembra sempre di disturbare quando promuovo qualche iniziativa. Però la vivo bene, è molto faticoso e mi sono accorto che ho cambiato lavoro. In realtà già da prima, perché per arrivare qui ci sono stati anni di lavoro insieme all’altro lavoro che facevo al ristorante, finché non ho deciso di saltare. Ma sono sempre un apprendista: cerco di capire se sto facendo bene o no, un po’ come quando cambi casa, hai la cucina nuova e non sai più dove sono le cose, e piano piano devi farla diventare una nuova abitudine».
Un lavoro a tempo pieno: ci sono novità in cantiere?
«Sì, un lavoro che richiede molte energie, ma bisogna andare adesso, e quindi si va. A chi mi chiede se sto lavorando a qualcosa rispondo cose diverse, perché voglio confondermi prima di tutto io. Credo sia una cosa sbagliata pensare a una storia. Le storie arrivano. Certo, spero non ci metta altri dieci anni, ma se inizi a pensarci diventa un mero esercizio. E poi come faccio a scrivere una storia dopo questa? È difficile! Deve arrivare quella che ci sta bene a fianco, deve arrivare il momento giusto perché io sono fatto così, e mi sentirei in colpa tutta la vita!».