L’indicibile tra i ricordi d’infanzia e i dolori dell’età avanzata. Per una volta Maurizio Maggiani si guarda dentro e ne scrive, in un diario di qualche anno fa, “Basta, davvero”. Poche pagine preziose, stupore di breve durata, in cui c’è il Maggiani “orfano di molte cose”, il coltivatore di rose, l’ipovedente e il figlio alle prove più dure…
Un rigagnolo, nemmeno un torrente, un rigagnolo di acqua ai lati delle strade, dopo una pioggia leggera, mollata giù da un cielo non troppo convinto. Un rigagnolo laddove invece c’è di solito un fiume in piena, contro la cui corrente nulla possono dighe e argini. Un libretto perfetto, quello pubblicato da Maurizio Maggiani, non uno di quei libroni inni all’affabulazione sotto le consolidate insegne di Feltrinelli, ma per Abbot, giovane casa editrice indipendente, fondata a Roma nel 2020: catalogo ancora snello, ma con più di una perla a comporre il filo.
Tenerezza pudica e mai lacrimevole
Una di queste perle è il primo, e sembrerebbe ultimo, diario di Maurizio Maggiani, narratore poderoso e generoso, autore di grandi romanzi, e non solo per dimensioni, di solito voci di chi non ha voce, sogni mancati, pezzi d’amore e anarchia, storie contro il potere e a favore di umiliati e offesi. Stavolta siamo proprio da un’altra parte, c’è spazio per l’intimità, Maggiani si guarda dentro, attorno, con parole ora semplici, ora eleganti. In Basta, davvero (64 pagine, 10 euro), testo elegiaco e commovente, ma di una tenerezza pudica e mai lacrimevole, Maggiani spiega una cosa semplicissima, ma che, sottolineata da uno che di mestiere scrive “storie che diventano libri, libri che la gente compra”, fa più effetto: “non tutto ha le parole per essere descritto”. Ci sono cose indicibili, e forse non c’è da crucciarsene, è solo onesto ammetterlo a se stessi. Farci i conti.
Un altro addio?
Chissà, magari questo Basta, davvero un po’ urlato su una copertina grigia magari è anche un mezzo addio alle scene. Qualche anno fa, di fatto, Maggiani l’aveva annunciato. Era il 2010, aveva pubblicato Meccanica celeste, probabilmente riteneva concluso una fase della propria vita e non solo. «Dopo 22 anni esatti – diceva Maggiani, letteralmente in un’intervista – mi sono reso conto che il mio ciclo di scrittore l’ho finito. Ho finalmente scritto il mio romanzo. Meglio di così non posso fare. Non mi faccio illusioni: sul mio campanello c’è scritto Maurizio Maggiani non Lev Tolstoj!». Che abbia cambiato idea è una gran fortuna in genere per chi legge, per chi di lettura, e storie, e idee non può fare a meno. Dopo il 2010 sono arrivati altri titoli, Il romanzo della nazione, L’amore, L’eterna gioventù, e con uno solo di questi altri autori ci avrebbero campato di rendita a vita. Ma, chissà, magari il settantenne Maggiani pensa di aver fatto davvero tutto, di aver scritto quello che era chiamato a scrivere.
Il senso di una doppia fine
“È uno stupore di breve durata”, per prendere in prestito una frase (riferita in originale alla bellezza del fiore della calla), questo libretto, arricchito anche da qualche foto scattata dall’autore, fotografo di mestiere qualche vita fa. In questo piccolo, raffinato, colpo di coda, in questo racconto di se stesso, un diario scritto dopo la vittoria del premio Strega 2005 con Il viaggiatore notturno, Maggiani oscilla fra i ricordi di infanzia e i dolori del futuro, tra la vocazione alla scrittura e il tempo più duro, quello in cui si diventa genitori dei propri genitori. C’è il Maggiani “orfano di molte cose”, il coltivatore di rose, l’ipovedente, e il figlio alle prove più dure, la demenza senile del padre Dinetto (sarebbe scomparso nel 2008), la morte della madre Adorna. C’è il senso di una doppia fine, ma senza nostalgia.
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