Un saggio autobiografico sull’universo femminile nelle opere di Gabriel García Márquez. Un ritorno all’infanzia e a un piccolo borgo sulla costa toscana. Con “Memoria delle mie puttane allegre”, un gioiello, Carlotta Vagnoli, scrutando il microcosmo di Marina di Castagneto Carducci, sfata i cliché sulle protagoniste di “Cent’anni di solitudine” e di altre opere del genio colombiano
Vivo quasi nel bel mezzo dell’età della pietra, non sono particolarmente avvezza ai social, il mio unico profilo, su Twitter, è agonizzante da un po’ e ammetto che non avevo idea di chi fosse Carlotta Vagnoli. Questo suo libro, però, mi permette di definirla con contorni più precisi: Carlotta Vagnoli è una dannata amica geniale. Non può passare inosservata una trentacinquenne (ma anche una quindicenne o una cinquantacinquenne) che verga, a pagina 66, “noi cosiddetti scrittori progressisti”. Ha scritto un libro perfettamente in linea con la filosofia della collana a cui appartiene, PassaParola dell’editore Marsilio: “memoir di scrittori italiani che si confrontano con un libro speciale, e dunque con le proprie ossessioni, con la propria biografia, vera o presunta”. L’autrice fiorentina si confronta con la propria infanzia e con un luogo d’elezione preciso – ognuno di noi ha la sua piccola Macondo – un borgo sulla costa toscana, Marina di Castagneto Carducci, qualche centinaio di abitanti quando non è estate. E da questo guardarsi indietro ci permette di osservare sotto una luce nuova, più precisa, le opere di un monumento perenne delle lettere mondiali, il colombiano Gabriel García Márquez, scomparso da otto anni, ma ancora vivissimo.
Sottomesse e autolesioniste? No
In particolare Carlotta Vagnoli (nella foto con Chiara Valerio, tratta dal profilo Twitter dell’editore Marsilio) accende i riflettori sull’universo femminile delle opere di Gabriel Garcia Marquez. La stirpe dei Buendia, coi suoi uomini solo in cerca di piacere, anche a costo di incesti, senza chiari obiettivi, perennemente sconfitti, alla lunga cedono il passo alle donne; quelle del patriarca del realismo magico, in particolare in Cent’anni di solitudine, hanno a lungo avuto fama d’essere sottomesse e perdenti, tristi e spesso incapaci di amare, assenti con mariti e figli, auolesioniste; il solo vero contraltare sembrerebbe la sfrenata e libera, mai remissiva e passiva, Pilar Ternera (“una nuova tipologia di potenza femminile che coincide con l’autodeterminazione del proprio corpo”, annota anche Carlotta Vagnoli), di professione meretrice.
Capire attraverso un borgo maremmano…
La propensione, dunque, a vedere i personaggi femminili di Márquez come tristi, emarginati, sommessi, viziati e viziosi è ben lontana dalla complessità dei loro caratteri. Nei libri di Gabo non ho mai visto puttane tristi, donne monodimensionali o fallimentari nello spirito che le anima.
Nel suo saggio autobiografico, Memoria delle mie puttane allegre (149 pagine, 12 euro) Carlotta Vagnoli ribalta i luoghi comuni sulle figure femminili nate dai polpastrelli di García Márquez, restituendo loro dignità. E per farlo si “avvale” del microcosmo per lei più vicino a Macondo, e di alcune donne di Marina di Castagneto Carducci (a cominciare da una sex worker che esercitava in un camper), fotografate qualche decennio fa, fin dove i ricordi arrivano. La cocciuta ristoratrice Morena, l’estetista Gabri e nonna Iselda sono nomi che poco dicono all’uditorio dei lettori, ma è attraverso le loro storie che hanno pieno compimento le parabole di tre donne cruciali di Cent’anni di solitudine, come la matriarca Úrsula, la già citata Pilar e Remedios la bella. Risolute, di bell’aspetto, impavide, capaci di trasgredire, tutt’altro che arrendevoli. Non c’è spazio per gli stereotipi (e l’analisi si estende anche ad altri romanzi del Nobel 1982, come Memoria delle mie puttane tristi e Dell’amore e di altri demoni), niente donne viziate o tetre, semmai coraggiose, sebbene forse non ribelli fino in fondo e di sicuro spesso inascoltate. Questo volume è un gioiello. Leggetelo e rileggete con occhi nuovi i capolavori di Gabo.
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