Un uomo solo tra frustrazioni e inquietudini, un massacro fra ricordi sconnessi e pensieri annebbiati, in “Azzurro, troppo azzurro”, secondo libro di Paolo Di Stefano, che torna in libreria. Un romanzo psicologico di abile montaggio temporale e rara finezza…
Nella seconda metà degli anni Novanta il siculo-ticinese Paolo Di Stefano era già un apprezzatissimo critico ed era alle prime prove del secondo mestiere, quello dello scrittore in proprio, che l’ha condotto a splendidi risultati come il recente Noi (Bompiani) e Giallo d’Avola (Sellerio). In quegli anni dopo l’esordio narrativo di Baci da non ripetere, Di Stefano aveva dato alle stampe un secondo romanzo, allora per Feltrinelli, che adesso ha trovato una nuova casa nei tascabili Bompiani, Azzurro troppo azzurro (155 pagine, 12 euro).
Traumi e raggelante disperazione
Azzurro, troppo azzurro è il romanzo di una raggelante disperazione, di una coscienza malata, un paio di pagine e l’epilogo atroce è più che prefigurato, protagonista Rizzo, un uomo disconnesso dal resto del mondo, intontito dalla pioggia televisiva delle linee erotiche. Al centro della scena la sua psiche e “la testa dentro il sacchetto bianco di plastica”. Anni di solitudine e fallimenti personali e professionali, lontano dal sud d’origine, in una grigia città settentrionale. E poi una notte e una mattina per precipitare e lasciarsi alle spazio frustrazioni e traumi (trauma è un concetto piuttosto ricorrente nei primi volumi di Di Stefano, si pensi al romanzo successivo, Tutti contenti, e al trauma legato all’infanzia del protagonista Nino Motta, che a differenza di Rizzo, lascia il nord per la Sicilia, per Messina), una ventina d’anni di normalità apparente.
Monotonia e patologia
Un personaggio inquieto e controverso come pochi, quello che tratteggia Paolo Di Stefano, incastrando e intrecciando passato e presente, dipingendo un’atmosfera opprimente e monotona, una situazione patologica. Un’agonia interiore, vissuta tra quattro mura, in uno stabile di emarginati. Rizzo ritaglia ossessivamente articoli di giornali su episodi di cronaca nera (anche il già citato Nino Motta, di professione tipografo, colleziona ritagli per indagare sul proprio passato…), li conserva in buste gialle, ordinate dalla A alla Z in un armadio, e fa continuamente i conti con le proprie paure e con dolori che non svaniscono. Corpi riversi a terra – quelli di una strage – pensieri annebbiati, ricordi sconnessi, memorie d’infanzia
Il controcanto di una donna andata via
Controcanto decisivo, nella seconda parte del romanzo, la voce di Roberta, convivente di Rizzo, i cui sentimenti si spengono lentamente, come si evince da alcuni “spaccati epistolari” della donna. Sono lettere, di fatto, senza risposta, cariche di ansie e conflitti, del desiderio di libertà covato a lungo.
Da quando sono partita ti ho dimenticato, pensavo che avrei fatto più fatica a dimenticarti. Invece no, è bastato poco, non ho sofferto per niente, neanche un giorno. Stasera ho mangiato in un bel ristorante con una mia amica, è una ragazza simpatica che lavora con me, abbiamo parlato e parlato, le ho raccontato tutto, per la prima volta ho raccontato a qualcuno tutto quello che è successo, e Stefania mi ha dato ragione, mi ha detto che ho fatto bene a fare quello che ho fatto. Ma più mi diceva che ho fatto bene, più sentivo nella testa una tristezza e non c’erano parole che riuscivano a fermarmi quella tristezza.
Romanzo psicologico di rara finezza, di abile montaggio temporale, sparito dai radar delle librerie, Azzurro, troppo azzurro di Paolo Di Stefano merita una nuova vita e ha bisogno di lettori che sappiano regalargliela.
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