Dalla supremazia dell’immagine allo show business e al marketing – chiedere a Barnum – il passo è breve. E oggi c’è la macabra relazione fra apparire, avere ed essere: individualmente si è per ciò che si ha; socialmente si esiste per quanto si appare. L’amplificazione dell’immagine ha portato con sé varie sciagure…
Giacomo Casanova scrisse che le profezie determinano l’accadimento delle cose. La sua celebre fuga dai Piombi fu infatti propiziata da una pagina aperta a caso del suo libro preferito, L’Orlando Furioso, che pre-determinò la fausta data dell’evasione.
Non va sempre così, ma quello di Casanova resta un bell’aforisma. Gli è che bisognerebbe sempre distinguere le illuminazioni dalle previsioni fondate.
La tendenza oculocentrica
Per quel che riguarda la supremazia dell’immagine nella società attuale non sono mancate accorte letture dei meccanismi anticipatori. Potremmo citare Debord, Wharol, McLuhan, Baudrillard, la sociologia visuale anglo-americana e altri finissimi esegeti del trapasso dal moderno al post-moderno.
Personalmente ravviso una certa tendenza oculocentrica già dall’Ottocento. Lo confesso: ne approfitto per esplicitare la mia antipatia per l’oracolo Phineas Taylor Barnum (1810-1891), imprenditore americano, sfacciato imbonitore, creatore di serragli delle meraviglie e de Il più grande spettacolo del mondo, un circo sfarzoso che dava lavoro a mille persone, ne ospitava ventimila e che girò con grande fortuna tanto il Nuovo che il Vecchio Continente anche dopo la morte del suo creatore.
Utilizzando sino in fondo il clamore mediatico e l’umana morbosità per la visione (dal comune voyeurismo alle pubbliche esecuzioni, per intenderci) Barnum fu l’indiscusso creatore dello show business e del marketing.
Che si trattasse di freaks, patacche o acrobati straordinari poco importava. Il suo mega-circo aveva tre piste e quattro palcoscenici che lavoravano quasi simultaneamente: una bolgia di rumore visivo e di ohhh esterrefatti.
Le funzioni cognitive anestetizzate
Al giorno d’oggi questa condizione si compendia nella macabra relazione fra apparire, avere ed essere: individualmente si è per ciò che si ha; socialmente si esiste per quanto si appare.
Va da sé che questa egemonia dell’occhio (spesso priva di criterio, di senso critico e di ritenzione) anestetizza un bel po’ di funzioni cognitive: lo scempio assecondato che si perpetua nella permanente bolla mediatica, mi si passi il bisticcio, è sotto gli occhi di tutti, ma in tutta evidenza senza riuscire a suscitare il debito sdegno – se non tutto teorico.
Ahinoi, non si tratta più di indigestioni di musei ma di letame.
Quanto alla mancanza di senso critico, a detta di alcuni studiosi sarebbe parecchio favorito tanto dall’egocentrismo che dal sociocentrismo. No comment, si dimostra da sé.
Altra sciagura dell’amplificazione dell’immagine è l’aver neutralizzato il controcanto dello specchio, l’abisso dello specchio, intendo, lo specchio come gate per un mondo parallelo, al modo di Cocteau o dell’Alice di Carroll o degli autoritratti di Van Gogh se preferite, in senso psichico, magico e conoscitivo. Persa la sua ambiguità e i suoi poteri, allo specchio non resta che confermare l’immagine convenzionale e unidimensionale forgiata per noi dal Sistema e ad esso conformata.
Quella donna dell’immagine, quell’uomo dell’ascolto
Un bel po’ di anni fa, l’accanita riflessione sull’opposizione tra occhio e orecchio mi portò a scrivere il mio primo romanzo, ambientato in un videogame.
In un futuro sovrapponibile al presente, dominato dall’oligarchia di potentati economici, l’efficienza del Sistema è basata sull’efficienza dei suoi consumatori. San Baudrillard diceva che il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare. Dunque lavora due volte, la prima per guadagnare e la seconda per rifornirsi con acribia d’inutile. (Tornando un attimo a Barnum, il suo detto più celebre fu: “ogni minuto nasce un allocco”).
Orbene, protagonista femminile della storia è Euridice, donna di punta del settore enterteinement d’una potente multinazionale; i suoi richiestissimi videogiochi rappresentano infatti una parte cospicua dell’economia mondiale.
Un bel giorno (ovvero ogni qual volta un giocatore reale fa una partita al videogame assumendo il ruolo e il nick di Orfeo) i due si incontrano: l’Occhio e l’Orecchio. Euridice donna dell’immagine; lui, musico per antonomasia, uomo dell’ascolto. Vuoi per l’inesorabile influenza del nomen omen, vuoi perché la trama ha da compiersi, Euridice inventa un nuovo, prodigioso svago per gli abitanti del Sistema: si chiama Undercover, ed è un audiogioco, tutto completamente basato sull’ascolto dei suoni del corpo. L’audiogioco ha un successo senza precedenti. I cittadini-consumatori riscoprono di possedere un senso, quello dell’udito, sul quale nidifica rapidamente una nuova percezione di se stessi e un sostanziale ripensamento di ciò che è realmente necessario. La riscoperta dell’ascolto, del corpo, dell’organico, induce progressivamente una mutazione dello stile di vita che ha immediate ripercussioni sul Sistema. Il successo commerciale di Undercover determina infatti una netta flessione di altri consumi voluttuari, sì da mettere a repentaglio la stabilità economica mondiale; così l’audiogioco viene ritirato dal mercato con un pretesto, ed Euridice, diventata ormai scomoda, è eliminata da un sicario governativo.
La storia procede con la discesa di Orfeo nell’Underground, novello Averno, per implorare la restituzione-resurrezione dell’amata con la quale non dovrà interagire nel viaggio di risalita…
Ma questa è un’altra storia che riguarda il mistero dell’amore in assenza.