Stefano Marchese firma la silloge “A-mors”. Con linguaggio elegante e lineare il poeta siciliano descrive l’uomo alle prese con un lungo inverno, con il niente assoluto; eppure c’è una corsa al riparo, il sentimento d’amore che non conosce morte…
la morte non esiste/lo spirito non può morire.
La raccolta poetica di Stefano Marchese dal titolo A-mors (43 pagine, 5 euro) pubblicata per i tipi di Antipodes, stando all’etimologia del termine latino a-mors, sembrerebbe rimandare al significato di ‘senza morte’, tuttavia nel caso della raccolta letteraria, al contrario il senso delle poesie non equivale alla assenza di morte, quanto alla vacuità, al nichilismo nietzschiano, neppure attivo che includerebbe quella forza capace di distruggere l’esistente, ma a un nichilismo passivo, inerte, sonnambulo e incapace di reazione. Il nulla, senza affezione: «correte e accorrete / che di morti che camminano / ne è pieno questo posto.»
La materia più dei sentimenti
L’individuo sembra destinato a vivere nel gregge sociale come sottoposto: «corri coniglio» dice Marchese, sentendone l’eco di Updike. Le poesie dell’autore siciliano, classe ’89, con una scrittura ritmata da un linguaggio elegante e lineare, si apprestano a fare un’analisi piuttosto legnosa della società contemporanea, il cui valore filantropico, l’ideale, la virtù, il pregio dei sentimenti appaiono annientati nell’animo umano e sostituiti dalla materia immodificabile «ammasso di ferraglia», e dalla “cosa”.
ma qui non c’è neve e non c’è morte/ solo deserto di cemento.
La civiltà ci viene presentata come imbrigliata in “un giorno di sole spento”. Un lungo inverno non solo stagionale fatto di “giorni autunnali”, nevi, gelo e freddo (“un soffio gela il tuo volto”) come le atmosfere descritte nell’opera poetica, quanto esistenziale, volta all’happening dell’apparenza. «Ridete/che sembrate stelle di un cinema hollywoodiano».
La condizione dell’uomo si intreccia a quell’evanescenza che smorfia gli esseri. La diafanía che impedisce la vista, il “grigiore di nuvole” che ostacolano lo sguardo e tracciano ” i lineamenti del mio viso”. Una turgida rigidità emozionale nella quale «l’oscurità incombe». All’individuo non resta che abbandonarsi alla macchina artificiale del panta rei indifferente: «mi abbandono/ mi abbandono ai fiumi densi /da capogiro/nei laboratori chimici/all’altare della notte».
La pausa e la sbronza di Dio
In questo grottesco spazio di niente assoluto, anche Dio sembra essersi preso una pausa dal dovere di infondere sentimenti umani laddove questi vengano rielaborati in sfregio: « Dio s’è ubriacato/battendo a macchina la mia storia/ io ammazzo il tempo /con queste puttanate» e dunque sembra avere un senso, per il quale valga lo sforzo di reagire. Una sfera, quella umana in cui l’amore come palpito del cuore sembra deriso e sostituito dal suo aspetto più impulsivo e volgarizzante, in balia dell’istinto e dei piaceri che diventano brama fine a se stessa. Un bestiale sfogo di energie, più che filia e passione d’amore.«non denigratela,/ la pornografia siete voi,/ declino della razza».
Un’oasi di salvezza
L’umanità in un paesaggio invernale, composto da materia, esclude il sentimento e l’empatia. Sottrae gli esseri perfino del sacro culto dei morti e il rito funebre che celebra la fine della vita, il passaggio dall’uno all’altro spazio. Ogni cosa appare: «cemento da bere». Eppure, al termine della raccolta, un’oasi di salvezza sembra essere proprio l’amore. All’umanità che annaspa come in cerca di risoluzione, quasi provando fame d’aria, alla ritrovata vista della natura, il contatto con la realtà bucolica, «cullati dal ventre del vento», e il sentimento dell’amore appaiono come un deus ex machina. La semplicità di quell’antico conosciuto e osannato da sempre, di quell’amore talvolta dimenticato, nel binomio di amore e morte, eros e thanathos, nel sentimento dell’amore che non conosce morte (A-mors) torna a essere l’unica vera “corsa al riparo”.
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