Ne “Il sospetto” Friedrich Dürrenmatt si va a caccia dell’origine del male dietro un apparente giallo vecchio stampo. La caccia all’uomo iniziale passa dunque in secondo piano e lascia spazio a fantasmi in carne e ossa che raccontano la mattanza dei campi di concentramento…
Il sospetto (120 pagine, 15 euro) di Friedrich Dürrenmatt, appena ripubblicato da Adelphi edizioni nella traduzione di Margherita Belardetti, è un inarrivabile gioiello letterario, l’atto sovversivo di uno scrittore magnifico che simula un’adesione totale al genere thriller e che poi, improvvisamente, lo scarta per addentrarsi in terreni ben più insidiosi.
Il sospetto è un’insinuazione diabolica, un lancio di dadi con cui, sotto lo sguardo annoiato della morte, inizia un’altra, eterna partita tra bene e male.
Il romanzo si apre con il commissario Bärlach, ormai prossimo alla fine, costretto a letto dopo un’operazione molto rischiosa al cuore.
Durante la degenza, per far passare il tempo, legge molto. Tutto procede tranquillo finché non gli capita tra le mani una vecchia rivista.
Un sadico dottore-macellaio
A turbarlo particolarmente è un articolo, con tanto di apparato fotografico, in cui si parla di un certo professor Nehle, uno dei più feroci criminali di guerra nazisti, un dottore-macellaio abituato a sfogare il suo sadismo sui prigionieri, operandoli da svegli.
Pur non accorgendocene subito – perché Dürrenmatt è molto bravo a dirigere la storia come se fosse un giallo vecchio stampo – è in questo momento che l’autore ci sottopone la questione attorno a cui ruota, oscillando tra etica ed empatia, tutto il romanzo.
Di chi è la responsabilità di un simile, inaccettabile orrore? Da dove origina il male? E perché la natura umana non gli si rivolta contro, compatta?
Lo sguardo impassibile della morte
E, intanto che ci domandiamo – perché certo, ci interessa anche quello! – se il dottor Nehle, contrariamente alle dichiarazioni ufficiali, sia ancora vivo e operi in una clinica di lusso a Zurigo, ci avviciniamo anche ad un livello superiore di verità che ci terrorizza e ci ammutolisce, una domanda che si estende alle ragioni della vita e della morte. Allora ci ritroviamo seduti a un tavolo, moribondi, a giocare una partita a scacchi contro un avversario lucido e spietato — è forse l’Avversario di cui parla anche Carrère? – sotto lo sguardo impassibile della morte.
La caccia all’uomo iniziale passa dunque in secondo piano e lascia spazio a fantasmi in carne e ossa, presenze che, col favore delle tenebre, si infilano nella nostra coscienza e prendono la parola. Intabarrati nei loro mantelli sbrindellati, raccontano la mattanza dei campi di concentramento, sviscerano l’orrore infinito, affondano nelle paludi della disperazione e ne riemergono grondando storie di massacri e follia.
Lo spettro corpulento di Gulliver, un vecchio ebreo scampato all’Olocausto, entra in scena senza preavviso e ci domina con crudezza, dissipando ogni preoccupazione retorica. Lo stesso accade con la tristissima infermiera del dottor Nehle, un’ ex-prigioniera che ha dovuto cedere la dignità per salvarsi la vita.
Contraddizioni umane e abiezioni
Tutto questo per dire che certe volte si scende a patti con il nostro carnefice, mentre altre si accetta di correre il rischio di un dolore insostenibile.
Solo il movente non cambia: restare aggrappati alla vita e, nella vita, cercare un po’di sollievo, una piccola, fondamentale grazia.
La stessa grazia di cui ci fa dono Dürrenmatt con questo ispiratissimo romanzo, l’ennesimo colpo di genio di un autore da cui possiamo aspettarci di tutto, anche un finale irrisolto che chiude il libro ma non la storia, l’accesso segreto alle contraddizioni umane e alle sue abiezioni.
Un intero universo che si dispiega in poco più di cento pagine.
E dal momento che non abbiamo nient’altro che questa zolla vagante di fango e ghiaccio a cui ci aggrappiamo, desideriamo che questa nostra, unica vita – questo fuggevole istante di fronte all’arcobaleno che si inarca sopra gli spruzzi e i vapori dell’abisso – sia felice, desideriamo che ci venga donata la sovrabbondanza della terra, per il breve tempo in cui ci può ospitare, l’unica seppur misera grazia che ci è stata data.