È un romanzo che coglie il suo tempo “Il figlio delle sorelle” di Leonardo G. Luccone, che si nutre dei tasselli di una vita deflagrata, in rigoroso ordine non cronologico. Una storia, raccontata da plurime voci narranti, che si svolge fra Roma, la Sicilia e la fragile psiche del protagonista. Una certezza: la felicità non sarà mai a portata di mano
Ho affrontato le centonovantasette pagine de Il figlio delle sorelle (16 euro), edito da Ponte alle Grazie, senza aver letto La casa mangia parole, il precedente romanzo d’esordio (ne abbiamo scritto qui) di Leonardo G. Luccone. Una colpevole lacuna da cui cerco di trarre almeno un risvolto positivo: svincolata dal peso di pietre di paragone, scrivo di questo secondo libro affrancata dalla tentazione di parallelismi. Non ignoro, però, chi sia Luccone. Nell’orizzonte letterario contemporaneo è apprezzato già come talent scout, editor, traduttore (tra gli altri, di J. Cheever), direttore della narrativa di Nutrimenti e 66thand2nd, fondatore della agenzia letteraria Oblique. Ruoli che lo accreditano come persona preparatissima e con spiccata predilezione alla sperimentazione. Date le premesse non mi aspettavo, soprattutto a livello formale, un romanzo diverso da questo.
Le dominanti esplicite
Per prendersi cura di qualcuno bisogna raccontare la sua storia, anche solo un pezzettino. Molti credono che le storie debbano essere dette dall’inizio alla fine, in bella copia, nel modo più preciso possibile. Sarà che sono negato (…), perché mi perdo sempre qualcosa, soprattutto perché non riesco a rinunciare a niente: penso che il tempo vada sparpagliato su un lenzuolo lunghissimo (non infinito, d’accordo, e nemmeno eternamente lungo – a dieci piazze) e che ci possono essere centinaia di divagazioni. Tanto quello che contano sono le dominanti, esplicite o no. Ci ho messo un’era geologica a capire che le cose hanno per ognuno una fisionomia diversa. Che ognuno vede un diverso profilo del mondo, compreso il cantuccio che ha sotto gli occhi. E allora sbagli perché stai lì a pensare quant’è limitato questo qui, quanto è goffa quella lì, e non ti chiedi cosa pensano gli altri del fatto che cammini dinoccolato, che ci metti tanto a dire le cose, che la testa ti pende da un lato, che fai solo sorrisi avari. (Della nostra voce abbiamo tutti un orgoglio esagerato).
Come mia consuetudine, saccheggio il romanzo per carpirgli dettagli che mi aiutino a tracciarne un prospetto riassuntivo e, soprattutto, me ne offrano una chiave interpretativa di prima mano. Il lungo frammento riportato – espunto da pagina 62 – mi pare si presti bene ad entrambi gli scopi. Tornerò al momento delle conclusioni sulla esaustiva “interpretazione autentica” che fornisce riguardo la linea di lavoro seguita da Luccone.
Per iniziare mi focalizzerò sulle “dominanti esplicite” grazie alle quali il concept primigenio covato dallo scrittore si è schiuso nella concretezza di questa narrazione, stratificata e complessa, è vero, ma unica rappresentazione praticabile, intendendo la volontà autoriale ricomporre i tasselli di una vita deflagrata come su una mina a causa di cedimenti di natura e psichiatrica e sociologica, per uno squilibrio, cioè, scaturente dallo scontro-incontro tra psicosi dell’uomo-protagonista e psicosi del genere umano-antagonista, tra un inconscio individuale che intende sopravvivere attraverso la negazione di sé e quello collettivo che vuole affermarsi sopraffacendolo.
Elementi base moltiplicati, confusi e sovrapposti
“Le dominanti esplicite” cui si accenna, coincidenti per me con gli elementi base su cui si regge ogni racconto – narratore, personaggi, luogo, tempo e trama – sono, in realtà, non individuabili con nettezza e univocità. Luccone le ha moltiplicate, confuse, talvolta sovrapposte. A partire proprio dalla voce narrante. Di volta in volta, infatti, irrompono nelle pagine, con il proprio contributo parziale alla verità, le voci narranti, al plurale, reali o immaginarie che siano: quella del protagonista principale, al quale non viene attribuito nessun nome proprio. Quelle della figlia Sabrina, dell’ex moglie Rachele, di Silvia, sorella di Rachele, di Gilda la nuova compagna, di Carlotta figlia di Gilda e di Ester, la zia siciliana. Lo stesso discorso vale per l’ambientazione. Anche in questo caso i luoghi, appunto, sono plurimi e anche in questo caso, oltre che geografici, ovvero esistenti nel mondo materiale, Roma – dove spesso è addirittura un abitacolo a fare da scenografia – e la Sicilia, essi sono spesso circoscritti più ancora che nella mente del protagonista, nel perimetro della sua fragile psiche.
Lo svolgimento del romanzo si biforca in due periodi: a cavallo del nuovo secolo i fatti che hanno luogo a Roma e nel 2018 quelli che avvengono invece tra capitale e Sicilia.
La paternità e la fuga
Di semplice c’è forse solo la trama, a volerla riferire in modo stringatissimo. Un uomo si lascia persuadere dalla moglie ad avere un figlio. Un percorso complicato e doloroso, al termine del quale si realizzerà il desiderio di maternità. Quanto all’anelito alla paternità, il discorso si complica. Di fronte all’evento compiuto, il nostro protagonista non troverà soluzione diversa che darsi alla fuga, nuovamente da intendersi tanto in senso letterale quando simbolico: lascia la moglie e, in seguito ad un crollo psichico, sparisce inghiottito da clinica specializzata in disturbi mentali, nella quale subirà un periodo di internamento. Sarà la figlia, ormai diciassettenne, a ritrovarlo. Tenteranno insieme contemporaneamente di ricomporre un rapporto e rielaborare un metodo per preservare l’equilibrio mentale di lui.
Frammenti di ricordi in dialoghi
Il percorso di allestimento del nuovo rapporto genitoriale alla luce del quale il protagonista ristruttura tutta la propria esistenza, viene scandito, nel libro in tre sezioni: “La salita”, “La discesa” e “Convivio” e procede, ricombinando frammenti di ricordi rigorosamente non in ordine cronologico, quasi esclusivamente attraverso dialoghi. Un’opzione di edificazione del romanzo rivelatasi felice, avendo consentito a Luccone di conseguire esattamente gli esiti desiderati, così come espressi “nell’interpretazione autentica” da cui sono partita: sparpagliare il tempo in stanze della psiche dove le linee cronologiche si accavallano e contorcono, per raccontare pezzettini di una storia individuale non in modo lineare, giacché ognuno vede un profilo diverso del mondo.
Una “terapeutica” stanza delle parole
Alle spalle dell’autore si avvertono echi di Freud e di Lacan, ma anche le suggestioni di quella parte della letteratura che «subisce il fascino di ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell’esperienza comune» (M. Fisher) e che dunque deve praticare soluzioni stilistiche altre per esprimersi compiutamente.
Il sottotesto de Il figlio delle sorelle sembrerebbe essere: – “In quale maniera un individuo, che vive un disagio esistenziale, che percepisce la bizzarria dei tempi e la stranezza del mondo come risposta a tale bizzarria, può sottrarsi al futuro? Non generando. Così, dinanzi all’imposizione di una paternità ormai già compiutasi, l’estrema via di uscita è la farneticazione, che è fuga da sé e allontanamento dal reale. Resistere e galleggiare. Per che via e a quale prezzo? Rifugiandosi in una terapeutica “stanza delle parole”, che a me sembra tradursi in romanzi come questo. Il costo è esistere accettando un equilibrio tra ordine e disordine, un raccordo armonico imperfetto tra i due elementi. La felicità non sarà mai a portata di mano.
«Quando si costruisce o ricostruisce un mondo mai esistito, una storia del tutto immaginaria, la ricerca è di tipo alquanto diverso, ma l’impulso e le tecniche di base sono piuttosto simili. Si guarda quel che accade e si cerca di capire perché accade, si ascolta quello che ci dice la gente e si osserva ciò che la gente fa, si riflette seriamente su tutto quanto e si cerca di raccontarlo con onestà, perché la storia abbia peso e senso.» Così Ursula K. Le Guin, saggista e scrittrice di quel meraviglioso fantasy che è “La saga di Terramare, sul suo lavoro. “Il figlio delle sorelle” non è un fantasy eppure, per qualche verso, gli si connette. Ritengo, perciò, che le parole di Le Guin possano adattarvisi bene. Luccone ha raccontato con onestà ciò che coglie del suo tempo. La storia de Il figlio delle sorelle ha un suo peso e, definitivamente, senso.
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