Con leggerezza, ma senza risparmiare la tragedia, mescolando fantasia e realtà, “Il cane di Falcone”, racconto per ragazzi di Dario Levantino, è un compendio della storia della mafia e di chi l’ha combattuta. Un inno al coraggio, al sacrificio, alla lotta quotidiana contro mafiosi, complici, collusi, deboli e vigliacchi
Quel geniale gigante di Sciascia sosteneva che un grande amore per gli animali ne cela in realtà uno assai scarso per gli uomini. È una di quelle rare volte in cui si può non essere d’accordo con lo scrittore nato a Racalmuto. C’è un libro, pubblicato di recente, che immagina Giovanni Falcone prendersi cura di un cane, di un trovatello, e infine, essere capace dell’amore più grande, dare la propria vita per gli amici, un intero popolo, sacrificio mischiato al coraggio. L’ha scritto Dario Levantino (nella foto di Alessia Gravina) che, all’epoca dell’eccidio mafioso di Capaci, non aveva più di sei anni. E che torna inevitabilmente sul cuore della propria narrativa, Palermo, la città in cui è nato, che osserva da lontano da tempo e, chissà, in cui magari ritornerà.
Dal basso era una città poetica e mostruosa, dall’alto prodigiosa e idilliaca; dal basso era sofisticata e inospitale, dall’alto confortevole e schietta; dal basso era vorticosa e sinuosa; dall’alto lineare e mite.
Struggimento e ironia
Dimenticate Rosario da Brancaccio, accantonatelo. Mettete da parte il ragazzo protagonista della trilogia di Dario Levantino per Fazi, libri tradotti anche in Francia, che in Italia diventeranno quattro l’anno prossimo. Non scordate, invece, il mix di struggimento e ironia di queste sue storie e consegnatelo a un momento storico specifico, come un decennio fra gli Ottanta e i Novanta, e a una figura cruciale, Giovanni Falcone, tanto isolato, osteggiato e calunniato in vita, quanto celebrato, soprattutto dai suoi ex nemici, da certa magistratura, da certa stampa, da certa società civile, da certa politica, da trent’anni a questa parte, da quando a Capaci morì con la moglie Francesca Morvillo e con gli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, vittime di un’organizzazione da sempre vigliacca, disonorata e spietata, prima, durante e dopo la dittatura sanguinaria di Riina.
Un bastardino, un rapporto padre-figlio
Un cane dalla memoria formidabile, un quadrupede zoppo, una creatura di sentimenti e presentimenti (“sono un po’ veggente. Un po’, nel senso che a volte prevedo il futuro, ma soltanto di poco”), che per caso si imbatte in Giovanni Falcone, conquistandone la fiducia, è la voce narrante de Il cane di Falcone (207 pagine, 12 euro). Levantino immagina che questo bastardino stazioni davanti alla casa del giudice (proprio quella di via Notarbartolo) e che proprio da Falcone, capelli arruffati e pigiama, riceva la prima carezza. Da Falcone sarà accolto e “battezzato” Edipo, poi Uccio, da Edipuccio. E con il giudice dialogherà in modo muto (“io capisco la lingua degli uomini ma gli uomini non capiscono la mia”), di mezzo qualche comico fraintendimento,
Così divenni il prosieguo della sua ombra, un prolungamento della sua sagoma riflessa dal sole palermitano. Lo seguii dappertutto e lui mi portò ovunque in città.
In un susseguirsi di immaginari dialoghi surreali (“questa cosa che io capissi il giudice Falcone e gli rispondessi ma lui no a volte mi stava stretta”), ma via via sempre più complici e comprensibili in entrambe le direzioni, si crea un singolare rapporto padre-figlio, crescono una specie di amore paterno e di amore filiale, grottesco e comico (Uccio, a un certo punto, gli presenterà anche la fidanzata), ma profondo. Coraggio e sacrificio sono cuciti assieme, fra realtà e fantasia. La retorica è in agguato, rare volte affiora, ma è un peccato veniale, il fine ultimo è molto alto.
Un compendio di storia
Questa storia di fantasia – ispirata da un cane che stazionava, al tribunale di Palermo, vicino a una statua di Falcone – sarà davvero capace di arrivare tra i pensieri di studenti di scuola media o superiore, questo romanzo per ragazzi che Dario Levantino ha scritto, come sempre per Fazi, abbraccia gli episodi professionali cruciali di Falcone, dall’omicidio di Rocco Chinnici del 1983 a Pizza Connection, dall’arresto di Tano Badalamenti alla collaborazione di Tommaso Buscetta, dalla creazione del pool antimafia al maxiprocesso, dalle lettere del corvo all’attentato dell’Addaura nel 1989, dall’incarico al ministero di Grazia e Giustizia per Falcone alla mattanza mafiosa, che continuava incessante ancora nei primi anni Novanta, solo trent’anni fa, fino all’epilogo più atroce. Un compendio di storia tutt’altro che asettico, pieno di intuizioni, che potrà commuovere i giovani, farli riflettere, avvicinarli più rapidamente all’età adulta (capita anche al cane Uccio di diventare adulto in fretta, e infine di invecchiare di colpo), con leggerezza, ma senza risparmiare la tragedia.
Alcuni lascino stare
Un libro che ci sentiamo di sconsigliare a tutti gli adulti che hanno smarrito il ricordo di come erano decenni fa (idealisti, ingenui, coraggiosi, arrabbiati, speranzosi), che ci sentiamo di sconsigliare ai detrattori di Falcone e di chi combatte la criminalità organizzata, ai politici che non hanno le mafie nei loro ordini del giorno, e ai mafiosi, ai collusi e ai complici: è gente che non ha gli strumenti per comprendere, nel loro Dna ci sono solo violenza e sopraffazione, prerogative dei deboli e dei vili. Questo libro non è per i deboli e per i vili.
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