Ne “La madrivora” di Roque Larraquy una vibrazione di sensualità percorre tutte le pagine e la morte si insinua in ogni aspetto della vita succhiandole la speranza; il frasario è sconvolgente, molte scene raccapriccianti, servite su un vassoio d’argento di naturalezza a tratti oscena. È palpabile l’intento dell’autore di inorridire, disturbare, quasi annichilire il lettore…
Uno dei gesti quotidiani di cui non possiamo privarci, ma di cui talvolta vorremmo poter fare a meno è…specchiarci. Lo specchio ci rimanda un’immagine reale eppure, in qualche modo, distorta, siamo e non siamo noi a rifletterci in quella superficie che cattura spietatamente ogni nuova ruga, ogni increspatura della vita che avremmo preferito ignorare. Lo specchio è lì a ricordarci che siamo più e altro di ciò che mostriamo, che quella smorfia che celiamo al mondo, a lui, a quel testimone inconsapevole, non possiamo nasconderla.
La Madrivora, di Roque Larraquy (164 pagine, 15 euro), è edita da Alter Ego con la traduzione di Carlo Alberto Montalto, all’interno della collana SPECCHI, e mai collocazione fu più azzeccata, perché questo libro, forse ben al di là delle intenzioni di Larraqui, costringe il lettore ad un viaggio introspettivo che al confronto Fight Club è un cinepanettone.
Angeli e demoni
Nulla ci viene risparmiato in quest’opera dove le descrizioni macabre sono precise, asciutte, presentate però attraverso un’apparenza asettica e un linguaggio dissacrante. L’autore, la cui mano sembra operare invisibilmente, infarcisce l’opera di un frasario sconvolgente, di scene raccapriccianti, servite su un vassoio d’argento di naturalezza a tratti oscena. Siamo in terra di nessuno, ben oltre la banalità del male, qui il bene e il male sono categorie vuote, e le donne esistono solo per il puro piacere dell’uomo.
“Io mi aspetto una moglie”, questa frase taglia in due l’universo femminile…angeli o demoni, sante o prostitute, nient’altro possono le donne. Gli uomini compresi in quest’orizzonte distopico non riescono neppure a contemplare l’idea che le donne abbiano un’essenza autonoma rispetto allo spazio che loro stessi concedono, ed è esattamente questo il motivo per cui ingaggiano un gara, costellata da tentativi goffi e patetici, per aggiudicarsi i favori di un’infermiera che sfugge a qualunque categorizzazione stereotipata, e che è costretta ad utilizzare l’arma della più totale indifferenza per riuscire a tenere lontano il branco affamato.
Horror vacui
Il sanatorio Temperley, dove si svolge la prima, e più ampia, parte del racconto, è un vero e proprio campo di concentramento ante-litteram, un non-luogo di orrore travestito e ammantato di normalità. È palpabile l’intento dell’autore di inorridire, disturbare, quasi annichilire, il lettore e allo stesso tempo irretirlo con le urgenze d’amore del dottor Quintana, che idealizza oltremodo la sua donna-angelo, fino all’inverosimile, nonostante la crudeltà, la mostruosità e l’efferatezza circondino entrambi. Il contrasto è stridente ma ipnotico, perché è un orrore carico parossisticamente di tensione erotica. Una vibrazione di sensualità percorre tutto il libro, dall’incipit fino all’ultima riga. Eros e Thanatos ci conducono alle porte dell’Ade, dove Persefone agogna la vita ma si nutre visceralmente della morte.
L’amore del Niente
Un salto temporale ci proietta, quasi alla fine del libro, nella capitale argentina degli anni duemila, in un intrecciarsi destrutturato e sconcertante di vite e di esperienze, in cui non c’è posto per un’umanità che sia realmente tale. Ognuno è una monade che ignora i sentimenti degli altri, che gioca con le vite dei propri simili. Il contatto fisico che dovrebbe preludere a un incontro di anime diventa un esercizio di insensato squallore, dove non sopravvive neppure un palpito di sentimento autentico. Vita, morte, sesso, uomo, donna, rappresentano parole vuote, segni tristi di totale assenza di verità.
Nessuno si salva nel libro di Roque Larraquy, neanche le vittime, perché non abbiamo il tempo di empatizzare con loro, e spesso sono volti anonimi che non riusciamo a distinguere.
Un sepolcro vuoto
Mai ho desiderato tracciare un confine tanto netto e deciso fra me e gli attori di un romanzo, perché la Madrivora evocata dal titolo è il simbolo di un’umanità che divora sè stessa, che mangia i suoi figli sperando di nutrirsene e decretando invece inevitabilmente la propria fine. Protagonista del libro di Roque Larraquy è la morte, quella definitiva, totale, che si insinua in ogni aspetto della vita succhiandole la speranza, dove Dio aleggia come una presenza che sadicamente gioca ai dadi con gli uomini, rimanendo poi a guardare cosa riescano a tirar fuori da quel lancio che ha un che di beffardo. Una nuda lapide decreta la conclusione, l’ultimo dado ad essere lanciato non mostra numeri sulle sue facce. Il sepolcro è vuoto, Cristo non risorge e Maria di Magdala vaga come un’ombra per l’eternità.
Il precedente capoverso sarebbe la chiosa ideale, ma non mi rappresenterebbe. Da questa cloaca infernale, che dal punto di vista letterario ha un indubbio valore, io però sento di dovermi dissociare “e mi sovvien l’eterno…Così tra questa immensità s’annega il pensier mio, e il naufragar m’è dolce in questo mare”, perché l’uomo ha bisogno di Bellezza.
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