La solitudine, le paure più inconfessabili, le lacerazioni insanabili che ci portiamo dentro, le stranezze davanti a cui vacilliamo e per cui proviamo tenerezza. Troverete tutto questo nelle pagine di “Oh William!”, nuovo romanzo di Elizabeth Strout, terzo che ha per protagonista Lucy Burton…
Ci sono cose che non sapremo mai. Ad esempio non sapremo mai come si sente veramente un altro, dal momento che l’unica prospettiva fisiologicamente concessaci è la nostra.
Eppure, nonostante l’ingabbiamento e il sentore di una particolare forma di solitudine che, in qualche fortunato caso, si trasforma nella consapevolezza di sé e nella possibilità di un riconoscimento nell’altro, ognuno di noi ci prova, è incuriosito da come se la passano gli altri, presume di capirli.
Il frequente, e tutto sommato naturale, abbaglio a cui sottostiamo è il luogo da cui originano quelle svolte che bene esprimono uno dei concetti base della letteratura: siamo tutti un mistero.
Suo marito
Il motivo della nostra posizione sulla terra – come insegnano la Strout e prima di lei Flannery O’Connor – costituisce quel nucleo misterioso – per citare l’irraggiungibile Alice Munro – che è il primo obiettivo a cui punta lo scrittore.
Avvicinarsi, tentare di raggiungere l’altro, con la chiara, esplicita ammissione che certe cose non le sapremo mai, è quello che fa anche Lucy Barton nel raccontarci non più di sé, ma del suo primo marito, William.
Lucy è una scrittrice di successo, e qualcosa ci dice che – date le sue traumatiche origini, intrise di grande amarezza e sofferenza – questo successo non se lo sarebbe mai aspettato. Il suo secondo marito, David, con cui è stata incredibilmente felice è morto e ora, a sessantaquattro anni, Lucy si ritrova alle prese coi fallimenti sentimentali del suo primo marito, con cui ha due figlie ormai adulte, e che scopre, tutto ad un tratto, di avere, da qualche parte nel Maine, una sorellastra.
La ricerca della sorella sconosciuta diventa il pretesto per innescare una serie di considerazioni e di intimi viaggi sull’inconfessabilità delle nostre paure, attacchi di panico che ci stravolgono – e ci fanno stupire di noi stessi – nel cuore della notte, quando la solitudine che già sperimentiamo di giorno si fa più palpabile e le distrazioni impossibili.
La distanza dall’impenetrabile
Di cosa siamo fatti? Su che binari viaggiamo? Quante occasioni perdiamo o al contrario che posizioni guadagniamo a nostra insaputa?
In Oh William! (184 pagine, 18 euro), tradotto da Susanna Basso per Einaudi, la Strout, attraverso la voce più matura della sua protagonista, ci risponde, mantenendo una doverosa e inevitabile distanza dall’impenetrabile.
Ci arriva chiara la misura delle nostre idiosincrasie, delle lacerazioni insanabili che ci portiamo dietro, dell’impossibilità di prescindere dai legami familiari – non c’è tomba con cui sigillare le atrocità o le grazie –; e soprattutto ci travolge, come un’onda montante, la compassione, intesa come forma di sospensione del giudizio.
È allora che le parole perdono efficacia, e tutto quello che possiamo dire, tutto quello che ci sembra giusto dire, è contenuto in un’esclamazione: Oh, William! Oh, Lucy! Ma anche, Oh! per ognuno di noi e per le nostre stranezze, davanti alle quali vacilliamo, e per le quali, alla fine, proviamo tenerezza.
Ché non c’è alcuna certezza, se non quella che tutti, ma proprio tutti, siamo una misteriosa, inimitabile, combinazione di storie.
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