Non un semplice cenacolo letterario, ma – mentre la dittatura spagnola scivola verso il tramonto – il centro d’attrazione per eccellenza di artisti, politici, scienziati e modelle. Lo racconta Francisco Umbral ne “La notte che arrivai al Café Gijón”. Con andamento ondivago – da un ritratto a un confronto, da un’intervista a un concetto – e con gli occhi di un egocentrico dandy si comprende la Spagna…
Prolifico, premiato, profondo, polemico, provinciale, poliedrico, provocatore, popolare pressoché assente dalle librerie italiane. Profilo perfetto per le edizioni Settecolori, che non smettono di riscoprire, rilanciare, rivalutare. Eppure, scomparso quindici anni fa ultrasettantenne, Francisco Umbral è un mito delle lettere spagnole, scrittore onnivoro per temi e forme, romanziere dal lessico ricchissimo, coscienza critica del Paese sulle pagine del Mundo, con frasi sincere e fustigatrici, per decenni, della società spagnola. La sua spettacolare scrittura – ma i pochi italiani che l’hanno potuto leggere nella propria lingua si sono dovuti accontentare di un volume Jaca Book, ormai fuori catalogo – adesso si può ammirare in un libro leggendario La notte che arrivai al Café Gijón (300 pagine, 26 euro), pubblicato in patria nel 1977 – quindi un paio di anni dopo la caduta del franchismo – arricchito dagli scritti di Carlos D’Ercole, Gabriele Morelli e Giuliana Calabrese, autrice della traduzione e di un prezioso contributo sulla scrittura di Umbral.
“Vedere” i suoni, “sentire” i colori
Per dare un’idea di pagine che consigliamo con trasporto ed entusiasmo basta leggere queste poche frasi:
Il momento più emozionante fu quando una volta Carmen de Lirio, dopo un’intervista che le avevo fatto, mi strinse la mano per congedarmi e la mia, di mano, rimase ammantata per tutta la sera come fosse un guanto.. Mi innamorai di Carmen de Lirio, mi innamorai del suo aroma, mi innamorai della sua mano.
Carmen de Lirio l’avevo vista sulle passerelle delle riviste scandalistiche, con le gambe lunghe ed elegantissime, e avevo perfino respirato la scia di profumo con cui avvolgeva gli spettatori al suo passaggio, ma adesso avevo sulla mano, indelebile, il profumo della donna più bella del teatro spagnolo.
Si viveva anche di queste piccole illusioni sciocche.
Francisco Umbral era un dandy narciso e compiaciuto? Probabilmente. Era un istrione egocentrico e controverso che pescava nella propria autobiografia per guardare in filigrana la Spagna? Forse. Di sicuro la sua scrittura avvolgente e linguisticamente innovativa, ben oltre i codici tradizionali, alla lunga rapisce e assuefa i lettori, provocando perfino episodi di… sinestesia; contamina i sensi, fa “vedere” i suoni e “sentire” i colori.
Luogo leggendario tra riti e miti
Raccontando gli inizi della propria carriera giornalistica, Umbral ricostruisce un luogo leggendario, fondato alla fine del diciannovesimo secolo, fatto non solo di miti, ma di riti: cenacoli di intellettuali e artisti impegnati dialetticamente in amabili conversazioni, affezionati a bevande e a passatempi ludici, a forma e sostanza. Chi frequentava il Café Gijón di Madrid negli anni Sessanta, nella Spagna franchista, si imbatteva negli accademici più in vista, nei pittori più famosi, e ancora attori, poeti, modelle, toreri, personaggi televisivi, scienziati e politici. Più la luce cedeva il passo al buio, però, più le presenze si facevano più informali e meno seriose, per aneddoti pittoreschi e storie curiose, protagonisti personaggi indimenticabili (su tutti il poeta beat Carlos Oroza), non necessariamente rispettabili…
Il benessere più della politica
Riflessioni sull’arte, pettegolezzi, cospirazioni, dibattiti sui massimi sistemi o solo sui riconoscimenti letterari. Al Café Gijón ogni momento è buono per dissertare di qualcosa e con la sua Olivetti portatile il provinciale protagonista che osserva tutto con occhi sgranati, ma senza timori reverenziali, testimonia un’epoca difficile da inquadrare, nonostante la Spagna sia ancora preda del franchismo; il giogo è meno spietato e pressante, c’è, ma si avvia al crepuscolo, la politica sembra finire nelle retrovie, cede il passo a consumismo e denaro.
… il benessere fluttuava nell’aria come un dolce inganno che dentro di sé aveva la coscienza nera di quel che sapevamo tutti: ci stavamo lasciando comprare, ingannare, ammaliare.
Perché l’arte è sovversiva…
Definire reportage questo libro è fargli un torto, Umbral, magnifico autodidatta (che dai colleghi che lo criticavano si difendeva contrattaccando, dicendo che erano mossi “dal vizio nazionale dell’invidia”), costruisce un piatto più gustoso e stratificato. La voce narrante, osserva, riflette, soppesa ed esamina; sembra capace di guardare dall’interno e dall’esterno con la medesima precisione. Eppure ha un andamento ondivago, passa da un ritratto a un confronto, da un’intervista allo sbocciare di un concetto. Uno fra tanti? Questo, che è anche una bella dichiarazione di poetica (oltre che di libertà).
… alla gente non interessa né la scrittura né la pittura ma la vita. La letteratura e l’arte, però, sono sovversive perché perpetuano e rendono evidente la distanza tra l’uomo e la natura. […] Questa frattura le religioni l’hanno capitalizzata come caduta, come il male. A causa sua siamo stati ripresi teologicamente. L’hanno usata per sottometterci.
E la politica a immagine e somiglianza della teologia. Siamo colpevoli di qualcosa. Di che cosa? Di avere rotto con la natura. E come riscattarsi dalla colpa? Piegandosi sottomessi al seno di una Chiesa religiosa o politica, che sono quelle che hanno il compito di rinsaldare, attraverso l’ordine, la crepa tra il pianeta e la specie. Un buon alibi per la repressione.
È per questo che non c’è niente di più sovversivo del fare arte pura, poesia pura, scrittura pura, musica, poiché l’arte nasce gloriosa dalla crepa immensa, dalla breccia.
Urge necessariamente concedere spazio a Umbral nelle librerie e nelle case italiane. E, editorialmente parlando, rischiare, riproponendo anche altri titoli della sua vasta produzione. C’è di che rimanere ammirati.
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