Una raccolta di racconti perfetti e incentrati su incubi contemporanei: è “Perché l’America” del debuttante Matthew Baker, in cui si legge di una moltitudine di situazioni a portata di mano e delle zone oscure da cui originano le nostre ambiguità
È uno scrittore da tenere d’occhio questo Matthew Baker che al suo esordio firma per Sellerio una superba raccolta di racconti dal titolo evocativo, Perché l’America (480 pagine, 17 euro) con traduzione di Veronica Raimo e Marco Rossari.
È da tenere d’occhio perché le sue storie distopiche sono, in realtà, tra le distopie più credibili nelle quali ci si possa imbattere.
Arte raffinatissima
Sono almeno due i fattori da considerare nel ragionare su questo scrittore che ci attacca con una narrazione così potente: il primo è che scrivere buoni racconti, racconti che reggano il peso della tensione dalla prima all’ultima riga senza smarginare nel banale, è arte raffinatissima, appannaggio di poche, benedette penne – Carver, Munro, Hemingway, Dubus; il secondo è il genere con cui Baker si cimenta, che è quello difficile, durissimo della distopia, in cui le scelte dell’autore sono ancora più decisive perché la storia risulti credibile e si avvicini, seppur rivoltata, al nucleo misterioso delle cose – così come lo chiamerebbe la Munro.
Baker raggiunge egregiamente entrambi gli obiettivi e ci consegna racconti perfetti, incentrati su incubi contemporanei, faccende che riguardano la vecchiaia, la malattia, i crimini, la realtà virtuale, la transizione di genere.
La distopia allora si riversa nell’altro quando è mosso da una cognizione contraria alla vita e si sottrae alla morte dando feste grottesche al posto dei funerali abituali, contribuendo al suicidio dei propri cari una volta diventati improduttivi, oppure nella scelta della smaterializzazione, operazione necessaria alla fusione integrale con la rete.
O ancora nella cancellazione della propria memoria come soluzione alternativa al carcere o alla pena di morte.
Quell’America vicina e inedita
Tutte le ricche, spiazzanti, micidiali short stories di Baker costituiscono degli ottimi, indiscutibili motivi per visitare quest’America immersa nella quotidianità delle cose – l’unto che resta sulla dita dopo una cena take-away, le partite di baseball dei figli, i giochi al buio durante un lungo black-out – e per questo vicinissima a noi, ma al contempo inedita, esacerbata, sottolineata nelle sue storture, improvvisamente squarciata a mostrarci gli strappi, i disperati buchi neri in cui stiamo già precipitando.
È di questo che Baker ci parla, di una moltitudine di situazioni a portata di mano e delle zone oscure da cui originano le nostre ambiguità, così che ci assalga l’atroce sospetto che la distopia di cui leggiamo sia già ampiamente in corso.
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