Vita, sussulti e miracoli della letteratura teatrale, oltre il testo d’autore o il mattatore, oltre il teatro di tradizione. Anche in Italia qualcosa s’è mosso, nonostante iniziali arretratezze ottocentesche. Merito di artisti fuori dal sistema e di altri linguaggi, fino alla smaterializzazione digitale, merito di una sperimentazione che prevale su un pubblico conservatore, di avanguardie e post-avanguardie. Cenni di una storia estremamente composita e non unilineare….
Ancora qualche tempo fa vigeva il consolidato equivoco di chiamare teatro la letteratura teatrale. Nelle università, i programmi di Storia del Teatro erano sostanzialmente incentrati sui testi teatrali e sui relativi autori; marginalmente sul farsi delle poetiche, comunque trattate in linea teorica. Tale equivoco, in realtà, era ragionevolmente supportato da una prassi consolidata: a fare botteghino era il testo d’autore o l’attore famoso (il celebre mattatore); la messinscena era considerata solo funzionale alla rappresentazione di un “copione”.
A un certo momento, come sempre grazie ad artisti fuori dal sistema, l’organismo teatrale prova a scrollarsi di dosso il ruolo di fido chierico del sacro testo e rivendica una propria autonomia, col proposito di detronizzare la figura d’un autore al di sopra e al di fuori del fare teatro. Sicché la parola da recitare si riposiziona accanto agli altri linguaggi performativi: visivi, sonori, coreutici.
Samuel Beckett
Indietro tutta
Il nostro Paese è restato a lungo ancorato a un’idea teatrale tutta ottocentesca, nella quale il testo incarnava l’origine e il fine della rappresentazione, malgrado decenni di esperienze europee: le avanguardie russe, Appia, Craig, Artaud, Grotowski, Kantor, il Living, l’Odin di Barba, il Berliner Ensemble di Brecht; e persino drammaturghi come Beckett, al quale era già chiara la crisi del linguaggio. Significativamente, Beckett arriva a produrre gli “Atti senza parole”, fatti di sole didascalie e nemmeno una battuta.
È solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento che si definisce un chiaro distinguo tra scrittura drammaturgica (il testo) e scrittura scenica (la messinscena). In Italia la sperimentazione ribolle a dispetto del pubblico conservatore, ed è grazie al movimentismo culturale e alle appassionate recensioni dei Flaiano, Arbasino, Bartolucci, Fadini, Quadri, che la ricerca teatrale trova visibilità e persino sostegno sulla carta stampata.
Per la critica “togata e patentata” non esisteva che lo spettacolo blasonato: grandi compagnie recitavano grandi testi in grandi teatri.
Ennio Flaiano
Il convegno di Ivrea
Nel 1968, a Ivrea, si riuniscono in convegno gli enfants terribles della scena non solo italiana per cercare un confronto e una sintesi nel concitato Manifesto “Per un nuovo Teatro”. Mi rendo conto che il Manifesto di Ivrea è materia da addetti ai lavori (o bene informati o un po’ avanti negli anni). Proprio per questo provo piacere nel riportarvi qualche nome dall’elenco dei firmatari: Giuseppe Bartolucci, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Cathy Berberian, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Emanuele Luzzati, Franco Quadri e Luca Ronconi fra gli altri.
La querelle sulla drammaturgia apre di fatto due fronti di battaglia contro l’imbolsito teatro di tradizione. Il primo riguarda la necessità di svecchiare il repertorio e di aprire a una nuova generazione di autori. Il secondo, come già s’è accennato, guarda al nuovo attraverso un sodalizio fra teatro e arti visive.
Antonin Artaud
Alle origini
Del resto, la tragedia greca, radice del teatro occidentale, s’avvaleva di numerosi codici (recitazione, musica, canto e danza) che ritroviamo nella multimedialità perseguita sin dal XIX secolo, dall’Opera d’arte totale di Wagner al Teatro della crudeltà di Antonin Artaud, dalla musica visiva di Gordon Craig al musical, sino alla totalità percettiva e sinestetica che contrassegna il nostro presente. Per contro, il teatro di prosa è monocodice per definizione.
E non è tutto: il teatro drammatico delle origini scaturisce dalla ritualità, e quindi nasce atemporale, cioè inattuale; per contro il futuro teatro di parola, con preziosissime eccezioni, avrebbe per lo più assunto il ruolo di specchio del reale (mansione invece congeniale al genere comico).
Nel suo celebre La nascita della tragedia Nietzsche sostiene che la decadenza della Tragedia coincida col cosiddetto Illuminismo greco. L’urto del relativismo e del razionalismo imperanti finisce col depotenziare lo stigma del tragico: lo stretto intreccio con la mitologia, la riflessione sulla natura dell’uomo, sul senso della vita, sulla colpa, sul Fato, sugli dei e su ogni sorta di grande dilemma. Il Tragico reclama la presenza operante di un pessimismo virtuoso, di forze irrazionali che mal s’attagliano a quella sorta di “positivismo ante litteram” dell’età periclea (della quale Euripide assorbì tutti gli umori) che invece privilegia l’ottimismo della ragione e una visione pragmatica del mondo.
Nella primigenia nozione di Tragico, infatti, incombe continuamente la presenza dell’arcano: ogni parvenza reca un rovescio oscuro che allude al caos dell’indifferenziato, all’ebbrezza vitale, orgiastica, che sfigura la certezza dell’identità spalancando scenari imponderabili. È il dionisiaco, il fuoco che brucia e non rischiara. Nulla di più lontano dal relativismo e dal realismo di Euripide, che si fa invece cantore dell’umana gracilità e di vite non esemplari.
Ecco infatti Nietzsche a proposito di Euripide: “Per opera sua, l’uomo della vita quotidiana passa dalla cavea alla scena”.
Eugenio Barba
Riforma e Controriforma
Fra gli anni Settanta e gli Ottanta in Italia la sperimentazione trova ulteriore impulso grazie alla foga creativa delle cosiddette post-avanguardie (tout court i nipoti del Convegno di Ivrea) e di un’altra frangia internazionale nota come Terzo Teatro il cui nume è l’italiano Eugenio Barba, iniziatore di splendidi studi di antropologia teatrale comparata.
Quel che differenzia il Terzo Teatro dalle post-avanguardie è una più forte coscienza socio-politica, la marginalità come pratica consapevole di crescita e di confronto, l’azzeramento della distanza tra attore e spettatore. La questione artistica coincide in tutto e per tutto con la vita quotidiana degli esseri umani. Spesso questi gruppi teatrali si riuniscono in comuni.
Mariangela Gualtieri
Ci vorrebbero troppe pagine per onorare quella che è stata una vera e propria epica culturale di quei decenni.
Mi limiterò solo a citare il Teatro Valdoca di Cesena (fecondo sodalizio tra il regista Cesare Ronconi e la poetessa Mariangela Gualtieri) per aver magistralmente messo in scena la scrittura poetica della Gualtieri.
Pure, c’è chi, come il visionario regista lituano Eimuntas Nekrosius (convinto che la natura del teatro sia “di essere visto”), potenzia a dismisura la scrittura scenica senza intervenire sulla drammaturgia. Nekrosius incanta le platee di mezzo mondo con gli Shakespeare e i classici russi recitati in lituano e spesso lasciati in versione integrale.
Inutile precisare che tali vicende, qui appena accennate, sono parte di una storia estremamente composita e non unilineare.
La grande drammaturgia angloamericana, per esempio, per tutto il Novecento e ancora ai nostri giorni, ha perseverato imperturbabilmente e con successo sul filone del dramma sociale e del dramma familiare. Questo giacimento evergreen oggi ispira la quasi totalità dei novissimi autori non solo angloamericani.
Il teatro di parola è più vegeto che mai, tanto che le nuove produzioni dei grandi enti teatrali (italiani e non solo) sfoggiano i brand di valenti drammaturghi in carriera, prolifici autori di social drama e family drama in chiave post-moderna, portati in scena in modo convenzionale, talvolta con apporti multimediali che tuttavia nulla aggiungono alla ragion d’essere delle pièces.
Eimuntas Nekrosius
Visionari o caporali
Per certo, la scena contemporanea ha perfettamente assimilato la componente visuale; vuoi come eredità, vuoi in virtù della tecnologia dilagante. La smaterializzazione digitale ha investito anche il palcoscenico introducendo scene virtuali ed effetti di grande impatto visivo.
Sul piano dei contenuti, purtroppo, per quanto riguarda il teatro di prosa assistiamo a un’imbarazzante contiguità con il cinema, le serie tv e gli speciali di cronaca.
Ma a ben vedere, questo potrebbe essere solo un vecchissimo problema dentro nuovi panni. Personalmente ho idea che la prosa si porti appresso un vulnus genetico che certo non si manifesta nella tautologica dominanza del testo, ma sempre e solo negli argomenti, nella mancanza di argomenti Maiuscoli, esattamente come per la tragedia dopo Euripide. È l’annosa ingiuria del realismo che, per dirla con Cioran, non è che un’opinione degenerata in certezza.