Area 22. Wiesenthal e la giustizia della negazione

Un drammatico episodio della seconda guerra mondiale è al centro de “Il girasole – I limiti del perdono” di Simon Wiesenthal, nel dopoguerra noto come cacciatore di nazisti. Un ragazzo morente, componente delle SS, con vari eccidi contro ebrei sulla coscienza, chiede perdono al giovanissimo narratore, proiezione dell’autore, che porterà con sé quel ricordo e alcuni dubbi per tutta la vita. La nuova puntata della rubrica Area 22

Alcune storie hanno un surplus di senso che va oltre a ciò che il soggetto-lettore coglie e sottolinea, semplicemente perché fanno eco in qualche angolo dell’inconscio con la propria esistenza. Alcune storie s’impongono perché hanno malcelate entro di sé esigenze universali: esse fanno parte della storia collettiva di un popolo, oppure la narrazione tocca aspetti radicali dell’essere umano in quanto tale. E anche qui vanno oltre, o quantomeno ne annunziano da lontano un orizzonte. A mio avviso il testo che vi propongo contiene tutte queste caratteristiche.

Una storia vera

Simon Wiesenthal è stato giornalista e scrittore, morto a Vienna nel 2005. In quanto ebreo-polacco, ha vissuto (e sopravvissuto) l’esperienza dei campi di concentramento, e nel Dopoguerra ha fatto parte di una delle commissioni dedicata alla raccolta delle prove contro i crimini nazisti, e della ricerca dei latitanti degli stessi. Forse il libro che meglio riassume la sua opera è Giustizia, non vendetta (che titolo!!!) edito in Italia da Mondadori. Qui però proponiamo la recensione del libretto (la storia in sé non arriva ad un centinaio di pagine) per cui è maggiormente conosciuto, Il girasole – i limiti del perdono (tradotto da Maria Attardo Magrini per Garzanti) e altro non è che uno scarno adattamento di una storia realmente accaduta di cui lui fu co-protagonista. 

A Leopoli, dal ghetto al lager

In queste settimane abbiamo imparato a conoscere Leopoli. Oggi fa parte del territorio ucraino ed considerata il suo avamposto occidentale, la porta verso l’Europa di questo paese martoriato. All’epoca dei fatti era ancora una cittadina della Polonia, con ampie periferie di campagna ed un centro dinamico animato dal Politecnico presso cui l’autore ha studiato. Ma nel 1942 divenne un inferno ben peggiore di quanto non lo sia oggi, quando dal ghetto si decise di trasferire gradualmente gli ebrei in un lager costruito poco fuori la città. Wiesenthal era con loro, e il libro inizia con scene e ricordi di vita dal campo di concentramento. Gli amici che erano con lui vengono descritti con cura sin dalle prime pagine ma sembrano piegare verso un maldestro adattamento letterario: Josek, il credente nonostante tutto e amichevolmente chiamato rabbì, e Arthur, il classico scettico e realista a cui il dramma quotidiano dà forza e ragione in maniera del tutto evidente. E trovo goffo anche un dialogo di certo artificiosamente inserito a pag. 10, in cui Josek cerca di spiegare la situazione raccontando un midrash sulla creazione dell’uomo dal fango in cui quattro angeli dissertano tra loro se Dio dovesse o no creare l’uomo stesso. E che poi quest’uomo, sin da subito, uccide il giusto (cioè l’introduzione dell’ermeneutica di Caino e Abele). L’autore-protagonista appare in mezzo a questi, si domanda se è dallo stesso fango che vengono ebrei e nazisti, e fa vincere facilmente il punto di vista scettico, verso quale propende (anche a posteriori).

La morte di Dio

Appena dopo, viene introdotto il grande tema dell’assenza, o della morte di Dio, che ha cambiato per sempre il linguaggio della teodicea: “o Dio onnipotente, torna dalla tua vacanza e guarda di nuovo sulla terra”, recita una vecchina nel ghetto. Ora, tutta questa cornice appare ridondante rispetto alla scena e alla storia che a partire da quel momento, intorno pp. 11-12, inizia a dipanarsi. Il racconto procede agile e l’autore ti tiene ben legato alla sua vicenda personale in cui è protagonista suo malgrado, e non solo, com’è logico, per il dramma della Shoà. A tal proposito, Wiesenthal ha cura di riportare vari aspetti della vita dei lager, e diventa veramente didattico in ciò: fornisce elenchi di strutture, linguaggi gerarchici, esempi di torture, narrazioni di lavori forzati dentro e fuori. Lo fa bene, senza sfruttare il macabro o il cruento. Intreccia costantemente i suoi ricordi di giovane studente alla situazione del tempo narrativo, raccontando il crescere della cultura antisemita in città e nell’ambito accademico, favorito dal fatto che l’evento centrale del racconto avviene proprio negli spazi di quel Politecnico a lui tanto caro.

La morte di un nazista

Di che cosa si tratta? Cosa accade all’autore che rende significativo tutto il libro? Ebbene, durante una di quelle ‘trasferte’ in cui gli ebrei venivano portati fuori dai lager per dei lavori forzati (si citano ad esempio i lavori di posa ferroviaria), lui e un gruppo di compagni furono condotti proprio al Politecnico, ormai ridotto ad un ospedale militare per nazisti. Mentre erano nel pieno delle mansioni assegnategli, il Wiesenthal fu avvicinato da una suora che gli chiese di seguirlo in una delle aulette ai piani superiori. Non gli disse perché; e perfino al suo arrivo egli faticò a capire di che si trattava, e soprattutto perché gli fu chiesto di farlo. La suora, dopo averlo portato lì, lo lascia senza spiegazioni. L’atmosfera è irreale, e il tempo sembra fermo, annota il Wiesenthal nel suo racconto-ricordo. Egli si ritrovò al capezzale di un coetaneo più giovane di lui, un ventiduenne palesemente moribondo che tra bende e medicamenti a stento riusciva ad emettere le sue ultime frasi, trovando la forza chissà dove. Si chiama Karl – così gli disse, dopo un lungo preambolo – ed era un volontario delle SS. E aveva chiesto espressamente di parlare con un ebreo prima di morire, una volta saputo che era giunto sul posto un gruppetto di loro. Nelle pagine seguenti, la domanda “che ci faccio io qui?”, che già frullava nelle mente del protagonista, si fece sempre più inquietante. Quasi in paralisi per lo stupore, è il moribondo che si prende la scena della narrazione, e comincia a raccontare chi è, come si è arruolato, come si è ridotto in quel modo. Tra Simon – così si chiama l’autore – e Karl inizia a crearsi un sottile legame che il primo vorrebbe spezzare, ma senza riuscirci, nemmeno dopo la morte del militare.

Il massacro degli inermi

Prima che questa avvenga, nel tempo rarefatto di quella stanza, Karl riesce a raccontare la più grande atrocità a cui nella sua breve vita ha dovuto partecipare, l’unica che la coscienza anestetizzata d’un nazista (qui Hannah Arendt docet…) non è riuscita a metabolizzare: il massacro di una famiglia inerme di ebrei, bambini inclusi, nelle campagne dell’odierna Dnipro. Dopo aver dato alle fiamme la casa, gli abitanti furono costretti a scegliere se bruciare o lanciarsi dai balconi, e fucilati se sopravvissuti al suicidio obbligato. Colpisce come l’ascoltatore di allora, scrittore dell’oggi, possa riportare vividamente parole e sentimenti dell’aguzzino agonizzante, che al culmine del suo rammemorare rantola dalla disperazione: “mio Dio, mio Dio!”. Wiesenthal a questo punto ricorda di aver fatto il seguente pensiero:

Parla di Dio? Ma Dio è assente, in vacanza, come ha detto la donna del ghetto. Tutti avevano bisogno di Lui, tutti cercavano disperatamente un segno della Sua onnipotenza. Ma per questo soldato morente e i suoi simili non c’è Dio. Lo ha sostituito col Führer.

Il commiato del carnefice

Siamo giunti al punto. Karl racconta ad un altro ebreo ciò che lui ha inferto ad altri appartenenti a quel popolo, un po’ come se lui stesse ancora parlando alle sue stesse vittime. Egli è lì con la sua colpa, e il suo tormento supera il lancinante dolore fisico che da lì a poco lo condurrà alla morte. Egli sa che il delitto non può essere cancellato; dice espressamente che vorrebbe soffrire al posto delle vittime (sacrificio di espiazione, ndr) ma questo non è possibile. Allora, in punto di morte lo solleva il fatto che accanto a lui ci sia un ebreo; questo gli basta, dice. Ma non è vero: perché Karl, congiunte la mani in preghiera e sollevandosi con tutte le sue forza residue verso Simon, aggiunge: 

Lo so che quello che le ho raccontato è orribile. Nelle lunghe notti in cui aspettavo la morte, ero assillato dall’ansia di parlarne con un ebreo…di chiedergli perdono. Lo so, quello che le chiedo è forse troppo per lei. Ma senza una sua parola non posso morire in pace.

La pagina prosegue col silenzio inquieto che sopraggiunge, e il contrasto tra il sole di mezzogiorno che si scorge fuori dalla finestra e l’ombra tetra della stanza, col suo tempo inumano. Come reagisce Wiesenthal? Acconsente a questo estremo grido del morente? Così egli ci racconta l’esito della scena:

Il destino ha riunito per qualche ora due uomini che non si erano mai conosciuti. Uno attende aiuto dall’altro. Ma anche l’altro è impotente e non può far nulla per lui. Mi alzo, guardo verso quella figura distesa, verso quella mani giunte. Fra esse mi sembra di veder fiorire un girasole. Ho deciso. Senza dire una parola lascio la stanza.

L’impotenza

L’autore dichiara la sua impotenza; la sua coscienza non è riuscita ad andare oltre. Wiesenthal ripensa solo a quel bellissimo cimitero tedesco che aveva visto per strada, dove ogni criminale era adeguatamente tumulato e sopra ogni tomba si ergeva un girasole. Anche nell’estetica della morte i tedeschi erano superiori, mentre per le salme ebree – quando andava bene – il destino era finire nelle fosse comuni. Quest’uomo ha dunque diritto alla compassione?- annota l’autore mentre Karl finiva la sua confessione. Nessun girasole per le vittime trucidate; perché il perdono al carnefice? Non è l’ultima, e somma ingiustizia, chiamare un ebreo ad esprimersi in tal senso, dandogli il giogo di una responsabilità storica che non gli spetta? 

Il dubbio di chi resta umano

Tutta la seconda parte del libro, eccetto il finale, è il commento della vicenda accadutagli attraverso i dialoghi con i suoi amici. Sarà Arthur a riassumere la giustizia della negazione di questo perdono: “Un Herrenmensh ha preteso da un uomo di razza inferiore qualcosa che va al di là dell’umano. Se gli avessi perdonato, non lo perdoneresti più a te per tutta la vita” (p.66). Laconico, sarcastico, lapidario. Questa frase dell’amico-personaggio Arthur esprime tutta la potenza della logica del no, una logica pienamente umana. Di fronte a questo dramma anche il punto di vista della teologia ebraica, incarnato da Josek, viene a coincidere, pervenendo per altra strada alla medesima conclusione: ha fatto bene ad andarsene e non dare il perdono. Wiesenthal li ha messi d’accordo; ma il paradosso è che lui non è soddisfatto della situazione. Con tutto il male che lo circonda, malgrado conviva con l’angoscia, l’ingiustizia e la morte, la sua coscienza ha lo spazio per lasciarsi tormentare da questo ricordo, da questo dubbio. Ho fatto bene? È il dubbio di chi è rimasto umano, dopo tutto…e che riaffiora tempo dopo, quando nel campo fu deportato un giovane polacco di nome Bolek, con cui l’autore ripercorre la vecchia vicenda (nel frattempo gli altri compagni era morti…). Egli si sentirà provocato da una morale diversa, forse troppo aperta…ma sapeva che Bolek era un ex seminarista, studente di teologia che senza la guerra sarebbe stato già prete. Ma il punto è che tutto torna a galla come se non se ne fosse mai andato, quel Karl con la sua vicenda, e la sua morte a fianco a lui.

La sofferenza, un legame?

Anche la guerra finisce, grazie a Dio i lager chiudono e i nazisti sono sconfitti: ora caccia ai nazisti fuggiaschi, e come detto, Wiesenthal è in prima fila. Ma lui trova il tempo per recarsi a Stoccarda “con la ferma decisione di ricomporre e completare i dispersi frammenti di un quadro” (p.84). Non insegue le tracce di una SS scomparsa, ma va a conoscere la madre di un SS che forse non meritava di morire senza essere quanto meno ascoltata. La signora Maria non sapeva la verità su come morì il suo amatissimo e unico figlio. Cioè: sapeva della granata, non sapeva dell’eccidio che aveva compiuto poco tempo prima. E passando da una omertà all’altra, l’autore chiude il cerchio: appurata la verità dei racconti di Karl, della bontà e della sofferenza della donna, non dirà nulla dell’orribile delitto commesso dal figlio. “Vedevo le sue sofferenze e conoscevo le mie sofferenza – osserva l’autore -. Era questo il legame? E poteva la sofferenza essere un legame?”. Sì, evidentemente. Forse non poteva perdonare Karl, ma adesso si è convinto che ha fatto bene ad ascoltarlo, fino alla fine.

Risposte d’autore

Il libro non si chiude con le riflessioni dell’autore, che certo prova a trarre le conclusioni di questa ulteriore vicenda drammatica che lo visto protagonista. Il volume presenta almeno 120 pagine di dibattito che lo stesso Wiesenthal ha innescato negli anni, spedendo a numerose personalità il suo scritto e chiedendo a loro il parere sulla questione. Ne viene fuori un florilegio di opinioni sul tema del perdono a partire dalla vicenda estrema che ha vissuto l’autore. Solo a titolo di curiosità, segnaliamo le risposte di Abraham Heschel, Primo Levi, Gabriel Marcel, Herbert Marcuse, Jacques Maritain, Tzvetan Todorov e tanti altri.

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