Rispetto ai suoi primi due romanzi, con “Portami a casa” Jesús Carrasco affronta una dimensione quotidiana e prosaica, con il ritorno di un figliolo tutt’altro che prodigo prima al funerale del padre, poi al fianco della madre, malata di Alzheimer. L’egoismo e l’ingratitudine sembrano le cifre distintive di Juan, che aveva trovato la propria dimensione in Scozia, lontano dalla Spagna natia…
Ci sono tanti romanzi, al giorno d’oggi, che sono fiammiferi incapaci di accendersi, stelle che non sanno brillare. E poi ci sono quelli che ci prendono pensieri e viscere. Uno di questi l’ha scritto Jesús Carrasco, spagnolo, cinquantenne. Chi, come me, ha atteso anni, per rileggere un suo romanzo, dopo La terra che calpestiamo (ne abbiamo scritto qui), è stato premiato con un libro ispiratissimo, concepito e scritto in pandemia, un volume sulla famiglia e le sue ferite che non riescono a rimarginarsi, tema sempiterno, ma interpretato da Carrasco con finezza psicologica e bellezza stilistica.
Crude verità e individualismo
Rispetto al precedente ucronico romanzo e alla celebrata e tradottissima opera di debutto, Intemperie, Carrasco col suo nuovo romanzo, Portami a casa (263 pagine, 16,80 euro) – edito ancora da Ponte alle Grazie, stavolta nella traduzione di Pino Cacucci – sprofonda in una dimensione da tinello domestico, lavora una materia decisamente prosaica, in cui si immerge totalmente. Juan torna a casa, in una remota provincia spagnola, per il funerale del padre: è la terza volta in quattro anni che rimette piede a casa e la sorella Isabel ci mette pochissimo a rinfacciargli questa e altre sue mancanze. È un libro in cui ci sono crude verità esposte senza troppi giri di parole, ricordi da cui provare a imparare, ma soprattutto – incarnati dal protagonista – egoismo, ingratitudine e assenza di qualsiasi empatia. Del padre scomparso c’è poco da dire: la sua è stata un’esistenza di lavoro e sacrifici in una ditta che era poco più di una falegnameria, una piccola fabbrica di porte. Da quella dimensione, da un paesino nei pressi di Toledo, il figlio aveva deciso di allontanarsi, scegliendo Edimburgo per costruire un futuro lontano da quello che la vita avrebbe potuto, con scarsa fantasia, cucirgli addosso a casa. L’individualismo si contrappone ai legami familiari, il suo presente di aiuto giardiniere al suo passato di adolescente in una modesta cameretta e di studente di Ingegneria forestale.
Prosa spoglia, come certe vite
Con frasi spoglie e disadorne come certe vite, a cominciare da alcune raccontate in queste pagine, Carrasco prende le distanze dallo stile ricercato delle opere precedenti, ma si siede accanto a ognuno di noi, si prende carico di dolori verosimili e concretissimi, sembra percorrere le nostre strade. Un giovane che ha conquistato la propria indipendenza a duemilaquattrocento chilometri da casa, allontanandosi dalla famiglia d’origine, è costretto a fare i conti col passato, suo malgrado. E con un futuro che non aveva preventivato. Il repentino addio alla Spagna (con destinazione Stati Uniti, per motivi di lavoro) della sorella Isabel lo lascia solo a prendersi cura della madre, che soffre di Alzheimer.
Sente la voce di Isabel dentro la testa. È impossibile sbarazzarsene. È stata sempre lì, tenendogli le briglie corte, fin da bambini. I genitori erano occupati nei loro lavori e lei era occupata a stare addosso a lui.
Assumersi qualche responsabilità
Non è esattamente il ritorno del figliol prodigo, quello di Juan. Carrasco – quasi sempre con parole semplici e delicate, calibrate – è abile nel fotografare la crisi e la struttura emotiva di un uomo non più giovanissimo, che deve assumersi qualche responsabilità, nella terra in cui è cresciuto, nella casa da cui è scappato e nel rapporto con la persona che l’ha messo al mondo. Lo scrittore spagnolo procede con andatura implacabile per tutti i quarantanove capitoli, non trasmette malinconia o rimpianti, ci ricorda solo l’inevitabile, il quotidiano, le sfide minime, le piccole attenzioni che scivolano una accanto all’altra e costituiscono la vita.
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