Un testamento letterario in edizione accresciuta: è “Works” del recentemente scomparso Vitaliano Trevisan, uno dei più grandi narratori contemporanei e del contemporaneo; è un racconto autobiografico senza pudori e uno sguardo cinico e disincantato sul mondo del lavoro
Inevitabile (almeno per me) nel caso di morte di uno scrittore in circostanze tragiche come quelle di un suicidio non associare i suoi scritti alla sua esistenza. Può capitare anche con altri grandi della letteratura: David Foster Wallace, Ernest Hemingway, Virginia Woolf e per restare ai nostri lidi letterari Guido Morselli o Cesare Pavese, di quest’ultimo è rimasta tragicamente celebre la frase contenuta nel suo biglietto d’addio: «Non fate troppi pettegolezzi». Ce lo dice anche Vitaliano Trevisan, lo scrittore veneto scomparso per propria mano lo scorso 7 gennaio: «Non c’è da rifletterci sopra più di tanto: solo l’opera conta» e ancora: «Il mio è un gesto volontario» perché «Sono stanco e non ne posso più», e quindi «Nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla». Questo è il senso del biglietto ritrovato dai carabinieri all’interno della sua casa di Crespadoro sui monti vicentini dove l’autore di I Quindicimila passi. Un resoconto (Einaudi 2002), l’opera che l’ha fatto conoscere, si era ritirato da anni.
Isolamento e male oscuro
Quanto la malattia, la sofferenza o il semplice disagio psichico influiscano nell’opera letteraria o in ogni tipo di attività creativa e artistica è tema da sempre dibattuto ed inesauribile. In una delle ultime interviste concesse da Trevisan alla domanda: «La sofferenza aiuta l’arte o la paralizza?» lo scrittore risponde: «Cosa faccia all’arte non ne ho idea. Sulla sofferenza in generale posso dire che, non essendo comunicabile, ovvero mai del tutto “trasferibile”, è quanto uno ha di più suo. O almeno così è per me: la mia sofferenza è mia, punto». Trevisan può essere inserito in quella schiera di scrittori del nostro Novecento che si sono contraddistinti per il loro isolamento sia esistenziale che culturale quali Guido Morselli e Giuseppe Berto, afflitti da quel “male oscuro” che li ha attanagliati, di quest’ultimo quel male che dà il titolo al suo (di Berto) capolavoro.
Works di Vitaliano Trevisan (Einaudi 2016, 651 pagine, 22 euro), ora edito in versione ampliata e con cinquanta pagine in più con il capitolo iniziale Dove tutto ebbe inizio assume dopo la tragica scomparsa del suo autore il valore di vero e proprio testamento letterario di uno scrittore che dovrà essere riconosciuto (il tempo di solito in questi casi è galantuomo) come uno dei più grandi narratori contemporanei e del contemporaneo, intendendo in tali definizioni non solo la sua collocazione storico-letteraria ma anche lo sguardo acuto e disincantato sulla contemporaneità, con il fuoco centrato in questo caso sul mondo del lavoro e le sue varie dosi di alienazione.
Cambi di occupazione e irrequietezza
Si tratta come definito dal suo autore di un memoir, un’autobiografia sul lavoro e non solo scritta dopo i cinquant’anni, quando l’esperienza accumulata rende limpida la visione e la disillusione. Un racconto autobiografico ricco di digressioni e note a piè di pagina sempre puntuali e mai invadenti, centrato sul mondo del lavoro, vero e proprio mito e religione del Nordest italiano. I continui e quasi compulsivi cambi di occupazione del protagonista testimoniano un’irrequietezza di fondo che è legata non solo alle occupazioni svolte ma esistenziale: dall’impiego nella fabbrica di gabbie per uccelli per comprare la bicicletta che il padre non gli aveva mai voluto regalare a manovale (attività che ricorderà con piacere unicamente per le passeggiate sui tetti del centro di Vicenza), da lattoniere a geometra, da disegnatore in una grande azienda di arredamento a gelataio in Germania, da responsabile di reparto in un’azienda di cuscinetti a sfera fino ai cosiddetti “lavori socialmente utili”, da magazziniere in una ditta di materie plastiche a collaboratore presso un azienda che funge da associazione per il recupero di ex tossicodipendenti ed alcolizzati, fino a portiere di notte in un albergo della provincia vicentina. Il titolo dell’ultima opera in ordine cronologico uscita dello scrittore nato e vissuto nelle stesse terre di Guido Piovene, Antonio Fogazzaro e Goffredo Parise (quanti illustri natali ha dato questa terra alla letteratura italiana del Novecento) gioca con l’inglese, “lavori” ma è traducibile anche con opere, quelle di autori che con i loro scritti hanno saputo rappresentare in modo nitido e senza edulcorazioni la realtà che li circonda e i propri rovelli interiori. Trevisan è stato uno scrittore che ha visto la realtà e l’ha saputa raccontare, quella del Veneto durante i suoi anni giovanili dove (come anche altrove) baby pensionati di quarant’anni si divertono a fare i rivoluzionari, tra di loro molti ex estremisti di sinistra “che girano ancora con il Manifesto sotto il braccio”, citando al proposito proprio il conterraneo Guido Piovene, convinto che da quel Veneto filtrato non sarebbe mai potuto partire alcun movimento genuinamente rivoluzionario.
I Settanta e gli Ottanta
Il mutare del paesaggio che dagli anni Settanta, quando ancora le campagne erano punteggiate da paesi che le rendevano riconoscibili, è stato un tratto caratteristico della provincia veneta fino a renderla quel “frammento di una periferia diffusa” che è oggi, punteggiata solo di capannoni industriali senza soluzione di continuità. Questo lo sfondo che accompagna i cambi di occupazione dell’autore narrati con un crudo realismo che in alcuni casi sembrano scene prese da un film di Ken Loach. Sono gli anni Settanta quelli dai quali inizia la narrazione, quando tutto era politica e la droga si stava affacciando nelle piazze di città e paesi. Il racconto della sua esperienza con la tossicodipendenza è fatto da Trevisan senza pudori, nella consapevolezza che la scrittura sia un mettersi a nudo e che scrivere veramente significhi non tacere niente. La sua stessa attività nello spaccio di droga un percorso intrapreso in modo quasi naturale a seguito del ritorno da un viaggio ad Amsterdam dopo il quale ammetterà: «Spacciare è un lavoro a tutti gli effetti, un commercio che obbedisce alle stesse fottute regole di mercato». Una cruda e lucida descrizione dell’economia della droga: «Ci troviamo presto nella necessità di doverla vendere, almeno per poter mantenere il vizio che altrimenti si mangerebbe tutti i nostri introiti, leciti e non». Il passaggio ai ruggenti anni Ottanta dello yuppismo, prima di tangentopoli, in quel Veneto feudo incontrastato della Democrazia Cristiana dal secondo dopoguerra parla di quel Nordest iper-produttivo ammorbato dal più bieco paternalismo e servilismo aziendale, dove il fine settimana arriva come una maledizione e i giovani si rinchiudono nelle grandi discoteche cercando di dimenticare sé stessi a suon di alcool e sostanze proibite.
Una lezione mutuata da Bernhard
Alcuni dei brani che Trevisan estrapola dai suoi taccuini e qui riportati esprimono al meglio il cinico disincanto con il quale è visto il mondo del lavoro: “06/04/95 – In una cooperativa di handicappati come quella che ho sotto gli occhi, si comprende chiaramente come il lavoro altro non sia se un’invenzione dell’uomo per contrastare l’insensatezza dell’esistenza, per rendere più leggero il peso di quell’insensatezza”. Arriva a domandarsi: «Perché trovo sempre un lavoro? mi dicevo, perché non mi lasciano andare alla deriva in pace? Diventare un barbone» come uno dei personaggi dell’amato (da Trevisan e dal sottoscritto, ndr) Samuel Beckett). Filosofie e pensieri non certo accomodanti ma amari, risentiti e urticanti, del resto la scrittura ribadisce Trevisan è qualcosa solo se è qualcosa di nostro altrimenti è niente, e quella di Trevisan fa i conti in modo viscerale con la sua esistenza, senza contraffazioni e quest’opera che è anche la sua autobiografia per niente romanzata ne è l’espressione più fulgida. Una lezione che sembra mutuata da quella di Thomas Bernhard, l’amato scrittore e drammaturgo al quale Trevisan rende omaggio in altre sue opere quali I quindicimila passi, Il Ponte, un crollo (Einaudi 2007) e nel vorticante monologo di Un mondo meraviglioso (Einaudi 2003), nei quali non a caso il nome del protagonista è Thomas, lo stesso dello scrittore austriaco che è citato in esergo ad alcuni capitoli come in quello dedicato alla sua (di Trevisan) esperienza nei cosiddetti “lavori socialmente utili”, ove riporterà un brano tratto da Perturbamento: “Gli impiegati dello Stato non hanno responsabilità. Nella Repubblica la parola responsabilità è diventata una parola sconosciuta!”, brano citato in questo caso al fine di denunciare per contrasto la missione salvifica spesso troppo volte affidata al lavoro da parte dei molti, in un modo che potrà apparire cinico e disincantato ma che implicitamente è la denuncia di un lavoro disancorato da qualsiasi prospettiva di realizzazione umana: «Il lavoro per realizzare sé stessi. Realizzare me stesso! E poi, una volta che mi sono realizzato, che dovrei fare, appendermi a una parete?» «Nessuna volontà di realizzazione attraverso il lavoro, solo la necessità di lavorare per vivere, chiaro, semplice e senza infingimenti».
Da dove nasce il disincanto
Un disincanto che nasce dall’esperienza vissuta, documentata e denunciata delle morti sul lavoro, del lavoro in nero, dell’evasione fiscale della quale Trevisan sarà testimone dalle sue molteplici occupazioni, come quella nella sua città a metà anni Novanta dove si ritroverà a lavorare come conseguenza del suo matrimonio poi naufragato in un laboratorio orafo. Sarà quello successivo alla sua separazione il periodo che segnerà i suoi primi passi come scrittore, poco prima dei quarant’anni quando si ritroverà ad avere «solo me stesso a cui pensare. Non è forse questo che ho sempre voluto? Non possedere nulla, a parte me stesso? E la carta naturalmente; e la penna.» «Dedicarmi completamente alla scrittura, che assurdità! Eppure, mi aggrappavo a essa». Questo il pensiero che lo accompagna anche durante le occupazioni più disparate che hanno segnato la sua esistenza, quella di uno scrittore che dice ricordando quegli anni che ancora non ha scritto niente ma sa che diventerà uno scrittore: «Per ora scrittore che non scrive, ma comunque scrittore. Un pensiero che mi rincuorava sempre molto».
Infatti Trevisan scrittore, sia come romanziere che come autore di racconti, da non dimenticare la sua raccolta Shorts (Einaudi 2004), lo diventerà, e non solo ma anche autore di testi per il teatro dei quali solo pochi reperibili come ancora (si spera non per molto) molti dei suoi testi narrativi, sceneggiatore e persino attore. Uno dei periodi di mobilità gli darà lo spunto e l’opportunità di muovere i primi passi: «Ora pensavo non mi do affatto da fare, ora dispongo del mio tempo nella sua totalità: dalla mattina alla sera posso fare quello che voglio: anche niente, anche starmene seduto tutto il pomeriggio su una panchina al parco Querini senza fare assolutamente nulla. Che cosa inconcepibile, in questa città, in questa provincia, in questa regione, in questo nebbioso e malsano Nordest di questa ugualmente malsana, anche se non totalmente nebbiosa, nazione».
Quel capitolo finale…
Uno scrittore appartato, malinconico, fragile e segnato da quel male oscuro che fa capolino con la sua cupa profezia in un lampo all’interno di questa sua autobiografia, un male che lo ha portato via troppo presto ma anche un lucido e attento narratore, quando anche crudo e disincantato della realtà che ci circonda, uno che alle presentazioni dei suoi libri poteva rispondere a monosillabi alle domande del moderatore oppure alle torte filippiche di questo replicare interrompendolo e contraddicendolo, insomma non il più agevole degli autori da presentare. Questo suo Works, ultima opera pubblicata in vita di Vitaliano Trevisan si chiude con un capitolo dal titolo tristemente sinistro ed evocativo: Tenebre, la sua esperienza come portiere notturno in un albergo di provincia con la variegata umanità che lo contraddistingue, la sua ultima esperienza nel mondo del lavoro (dei lavori), il suo percorso di vita fino alla vigilia dell’incontro con Matteo Garrone che gli affiderà sceneggiatura e ruolo di protagonista nel suo film del 2003 Primo amore. Quello che viene dopo sono tutti gli altri scritti che ci ha lasciato e che abbiamo la fortuna di poter leggere, senza fare “troppi pettegolezzi”, perché “solo l’opera conta”.
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