Pianti silenziosi e sorrisi desolati, le sorelle di Maria Messina

Tardo verista, qualche affinità con Grazia Deledda (a dispetto di altri paragoni triti e ritriti), la siciliana Maria Messina è stata una delle maggiori scrittrici italiane del primo scorcio di Novecento. La riproposta del suo titolo più noto, “La casa nel vicolo”, mette in scena la vita immutabile di due sorelle, i soprusi del marito di una delle due, un ragazzo che paga il prezzo più alto. Una storia che è un grido di aiuto per le donne e, a suo modo, un moto di ribellione…

La ripubblicazione dell’opera omnia di Maria Messina, con tanto di pregevolissimi apparati critici, da parte della sigla romana Croce, fondata da Fabio Croce, è una delle più belle avventure editoriali degli ultimi anni. Il progetto, affidato alla curatela generale di Salvatore Asaro, idealmente si riallaccia alla prima riscoperta di Maria Messina, firmata da Leonardo Sciascia: per suo volere negli anni Ottanta più di un volume della scrittrice – palermitana di nascita, in vita a lungo raminga e scomparsa a Pistoia nel 1944, nemmeno cinquantasettenne – fu pubblicato da Sellerio. Adesso Croce è a quota sette titoli di Maria Messina e la più recente riproposta è certamente il romanzo più famoso dell’autrice siciliana. Esponente del tardo verismo, ma non estranea ad alcuni temi e motivi del decadentismo (non sarebbe una bestemmia accostarla a certe opere di Grazia Deledda, oltre che a qualche altro nome), contesa fra i principali editori nei primi vent’anni del Novecento (Bemporad, Treves, Ceschina a Vallardi, a Le Monnier), Maria Messina aveva ottimi riscontri di vendite e costanti collaborazioni ad alcune riviste, prima di un silenzio editoriale e di un malinconico isolamento, a causa di precarie condizioni di salute che la condussero alla morte. Lontano dalla Sicilia, dalla Palermo dell’infanzia e dalla Mistretta, in provincia di Messina, in cui, fra i sedici e i ventidue anni, maturò la vocazione letteraria.

Donne subalterne e un despota…

La casa nel vicolo (115 pagine, 14,90 euro) è un agile capolavoro di pianti silenziosi e sorrisi desolati, tra i migliori romanzi del primo Novecento italiano, pubblicato nel 1921 in volume (in precedenza a puntate sulla Nuova Antologia) e tradotto anche all’estero. In quest’ultima riproposta è arricchito dalla prefazione di Maria Serena Sapegno, docente di letteratura italiana alla Sapienza, che spiega anche il contesto europeo delle scrittrici nel primo quarto di ventesimo secolo. Di donne segregate, subalterne, ai margini, si legge ne La casa nel vicolo, di due sorelle che osservano fatalmente la vita immutabile e la subiscono nella persona di don Lucio, amministratore di un barone e usuraio, marito di Antonietta, che nella nuova casa in città è stata seguita dalla sorella Nicolina; quella che doveva essere una presenza fugace, un aiuto temporaneo si trasformerà in una presenza costante e prolungata nel tempo. Asservite e mortificate da un despota, per una marito e per l’altra cognato, la loro quotidianità è fatta di miserie e frustrazioni, di violenza e impotenza.

Prigioni invisibili e innamorate senza amore

È abilissima, Maria Messina, a scrivere di silenzi e pene e colpe, di prigioni non necessariamente visibili, di ambienti angusti e poco illuminati e di sentimenti taciuti, della provincia piccolo borghese o contadina, tra piccole gioie smorzate e lievi ribellioni che possono solo rimbombare in petto. Il giogo patriarcale e la disperata condizione femminile, l’incomunicabilità e il mal di vivere nei tinelli domestici e in seno alle famiglie sono temi che tornano, a più riprese, nella produzione, della scrittrice siciliana meno famosa fra le più brave. L’«innamorata senza amore» è una donna esemplare nella narrativa di Maria Messina: lo è, per esempio, Franca Gaudelli, protagonista di Un fiore che non fiorì, disponibile sempre nel catalogo delle edizioni Croce, lo è anche Nicolina de La casa nel vicolo, “sposa senza anello e senza sposo”, sedotta dal cognato, con cui passa repentinamente dalla tenerezza all’amarezza e ai rimpianti, compromettendo per sempre il rapporto con la sorella, che finirà per sostituire nella cura del focolare. A pagare per tutti sarà il figlio maggiore di Antonietta e Lucio, Alessio (“Tutti un poco gli abbiamo avvelenato la vita, come si avvelena una fresca sorgente”), sensibile osservatore del male che gli cresce attorno, ma che non riesce a “salvare” madre e zia; e in un certo qual modo pagheranno anche le sue sorelle, Agata e Carmelina, dal destino segnato.

Linguaggio senza effetti speciali

Con linguaggio nitido e sobrio, senza effetti speciali o compiacimenti, con sguardo abbastanza partecipato e per nulla impassibile, Maria Messina dà conto, implicitamente, di stati d’animo e restrizioni sociali, di sofferenze fisiche e risvolti psicologici, di opprimenti ottusità con cui soprattutto le figure femminili sono costrette a fare i conti. La sua voce, che si esalta nei sottintesi e nel non detto, può comunque farsi sentire, forte e chiara, anche al giorno d’oggi. L’immobilismo di esistenze dai giorni tutti uguali, l’opprimente claustrofobia sociale a cui sono sottomesse tante donne, chiamate solo a mansuetudine e cieca obbedienza, costrette a matrimoni di interesse, è a suo modo un grido d’aiuto, un moto di ribellione, un sostegno per tutte le donne che non ce la fanno…

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