Una storia familiare si intreccia con le ferite del Cile. Nona Fernandez torna a occuparsi dei “fantasmi” di un popolo, a lungo oppresso dalla dittatura di Pinochet. In “Voyager” lo fa, archiviando soprattutto cattivi ricordi, con ripetute metafore… astrali
Nella mia memoria la mia prima scena non c’è. Nessun neurone accende costellazioni nel mio cervello quando cerco di focalizzare il momento in cui sono nata. È l’origine del mio passato, il punto zero di tutto, l’ombelico della mia storia, eppure si trova nascosto in un angolo del mio ipotalamo, proprio come succede a mia madre con i minuti che smarrisce quando perde i sensi.
La memoria degli uomini e quella delle stelle. I ricordi individuali e quelli collettivi, oggetto questi ultimi di una pericolosa forma di rimozione nel Cile di oggi, a proposito del Cile di Pinochet. Lo sa bene Nona Fernandez, nome ampiamente riconosciuto ormai alle nostre latitudini, scrittrice cilena che certo passato – dopo averlo vissuto da bimba e da ragazza – non vuole smarrirlo, che intende superarlo, senza dimenticarlo. E ce lo ricorda libro per libro, anche stavolta finisce parlare di desaparecidos, di oppositori trucidati, delle ferite di molti. Si comincia con la storia del singolo, ma i suoi libri sono capaci di abbracciare un popolo e una cultura martoriati dalla dittatura e con le scorie ancora addosso…
La madre che sta male
Non fa eccezione, nel percorso di Nona Fernandez, Voyager (135 pagine, 14 euro), tradotto da Carlo Alberto Montalto, pubblicato dall’editore Gran Via nella collana Diagonal, dedicata alla letteratura ibrida, obliqua, a cominciare dai generi, libri tutt’altro he standardizzati, che non stanno a guardare mode ed etichette. L’anziana, quasi ottantenne, madre dell’autrice, ha le vertigini, sviene, fa fatica a mettere assieme ricordi di quei momenti. Si rendono necessari alcuni esami strumentali e lì scocca la metafora che cuce e tiene assieme tutto il volume, quella della memoria contro la dimenticanza, lotta declinata in senso… cosmico.
Porto il peso dell’intero universo sulle mie spalle. Tutti lo facciamo. Ne ho avuta conferma dall’esame neuronale di mia madre, quando ho visto scintillare centinaia di stelle nel suo cervello.
Come le sonde della Nasa
Il titolo del libro si riferisce a sonde statunitensi lanciate in orbite dalla Nasa nella seconda metà degli anni Settanta. Se la madre è condannata a scordare pezzi di vita, lo stesso non deve avvenire con la storia di un popolo a lungo oppresso, torturato, annullato, dal pensiero unico e dalla violenza di Pinochet. A lei, all’autrice, è accaduto di perdere memoria, per interposta persona: gli adulti che la circondavano, per paura o quieto vivere, “attutivano” i colpi del regime. Queste pagine di Nona Fernandez, come le sonde Voyager con gli astri, sono in qualche modo chiamate ad archiviare i ricordi, specie quelli della dittatura, ricordi, spesso cattivi ricordi, che continuano a sprigionare luce anche se si sono spenti da tempo.
Astronauti contro l’oblio
Affastella memorie e metafore Nona Fernandez, scrivendo pagine di grande tensione, purissime come la luce di certe stelle. Se c’è un luogo da dove si può osservare il cielo, quello è il deserto di Atacama, non un posto qualunque, ma dove nel 1973 furono assassinati ventisei prigionieri politici dalla cosiddetta Carovana della Morte (militari programmati per una repressione mirata degli oppositori): i cadaveri finirono probabilmente in mare, perché non fossero ritrovati. Centrale per la comprensione e la compiutezza del libro è la partecipazione di Nora Fernandez a una cerimonia di commemorazione che lì si tenne, voluta da Amnesty International, che avrebbe voluto ribattezzare alcuni astri con i nomi delle vittime di quella carneficina. Il racconto di quel momento e della moglie di uno dei morti, della sua spasmodica ricerca di giustizia e di una traccia del proprio caro, è l’apoteosi di un testo onesto, doloroso, mai retorico. Astronauti contro l’oblio. Ecco cosa siamo chiamati ad essere, sempre, in qualsiasi luogo.
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