Esistenze marginali, figlie di uno svantaggio sociale insanabile, e grandi, ma soprattutto piccole, tragedie sono al centro di “Urubus” della brasiliana Carla Bessa, volume di racconti ancora inedito in Italia, che spicca per l’uso creativo del linguaggio. Le diciotto storie brevi sono racchiuse in una struttura circolare: i personaggi tornano nelle stesse coordinate spazio-temporali ma attraverso punti di vista differenti. Un altro contributo da Lusoteca
Nella prefazione al libro Congo Square di James Baldwin, Éduardo Louis afferma che “nella cultura è compresa una violenza intrinseca”. La violenza, cui lo scrittore francese fa riferimento, consiste nella possibilità di riprodurre i “confini sociali” perché la letteratura, come ben sottolinea Louis, “racconta alcune storie ma ne tace altre”.
La raccolta di racconti Urubus di Carla Bessa, vincitrice del Prêmio Jabuti 2020 per la categoria “racconti”, si propone di illustrare proprio queste “altre vite” attraverso una scrittura attenta ed estremamente interessante. Il libro, ancora inedito in Italia, contiene 18 racconti racchiusi in una struttura circolare dove i personaggi di queste storie ritornano nelle medesime coordinate spazio-temporali ma attraverso punti di vista differenti. L’utilizzo di timbri di voce e di stili differenti donano alla raccolta un ritmo veloce e incalzante, ottenuto proprio grazie all’intersezione delle vite dei personaggi, che si interrompono bruscamente per poi riprendere qualche pagina più avanti.
Immondizia umana
Il primo racconto Urubus (Avvoltoi) dà il titolo all’intera raccolta, così come l’ultimo nel quale si riprende il termine Urubus (Urubus II), che rievoca immediatamente nel lettore le immagini che comunemente si associano all’avvoltoio: morte, malaugurio, decomposizione, resti in attesa di essere divorati.
È con un branco di avvoltoi che si chiude il primo racconto, dove incontriamo Zezinho, un ragazzo che vive con i genitori nei pressi di una discarica e che un giorno scopre un uomo (“homem-chorume/o anjo do lixão”) intento a cercare nell’immondizia qualche resto che possa contribuire alla sua sopravvivenza precaria. Le ultime parole del racconto offrono un indizio della premessa fondante da cui Carla Bessa prende le mosse: “Lì Zezinho impara che l’essere umano nell’immondizia diventa in breve immondizia umana”. Il “lixão” (discarica) assurge in questa raccolta a metafora dell’estrema marginalità dei personaggi e delle loro esistenze, stigma di uno svantaggio sociale insanabile, dove la sconfitta pare quasi come un destino già segnato e anche la libertà, pagata a caro prezzo, “nasce vecchia e già non serve a nulla”.
I protagonisti che abitano un centro urbano disagiato sono lavoratori senza alcuna tutela, amanti ritratti nelle loro quotidianità fragili dove non si possiede nulla perché tutto può essere rubato, sono vecchi dimenticati in palazzi anonimi, sono omosessuali che si nascondono dietro maschere di supposta normalità, sono donne che vivono all’ombra di uomini senza futuro, bloccate in un campo di attrazione senza via di uscita.
Colpisce l’amara consapevolezza che questi uomini e donne hanno di loro stessi, unita ad una timida compassione per le sventure che fanno parte del loro quotidiano, quell’impotenza davanti alla vita che li rende forse più clementi dinanzi ai propri insuccessi di chi gli sta accanto.
Sperimentalismo stilistico
Traspare, da tutto il libro di Carla Bessa, un uso estremamente creativo del linguaggio, che rivela l’abilità dell’autrice nell’uso delle parole. I dialoghi, ad esempio, ricercano la prossimità del contesto sociale dei protagonisti e sono riportati nella forma del discorso indiretto e attraverso l’utilizzo di numerose forme espressive dell’oralità. Il racconto Sem verbo (Senza verbo) rappresenta un ottimo esperimento di costruzione di una storia senza l’utilizzo di verbi, come anticipa il titolo.
Il lettore si accorgerà che ogni parola è accuratamente scelta e ha il proprio peso all’interno di ciascun universo narrativo, perché la buona letteratura non deve spiegare nulla e le parole stesse diventano la dimostrazione silenziosa dei significati che raccontano. Da questo punto di vista il racconto Vulcões (Vulcani) è davvero ben riuscito: la rabbia di una vedova erutta all’improvviso con la veemenza di un’emozione repressa al ricordo del marito che sbuccia una mela per offrirgliela al termine del pranzo, mentre lei rimuove il bollino sulla buccia. La rabbia è definita come lava incandescente, un magma ispessito da secoli di repressione che adesso la soffoca fino quasi a strozzarla.
Lo sperimentalismo stilistico culmina nel racconto finale della raccolta, raccontato in prima persona plurale e fornisce una panoramica della città, palco tragico di queste vite, viste attraverso gli occhi di un branco di avvoltoi che sorvolano in circolo potenziali resti umani da divorare, ovvero i protagonisti di queste vicende che anche se ridono, cantano, ballano “non scappano al marciume” che si allarga sottopelle.
Il laccio della scarpa
Il senso di tutto il libro di Carla Bessa è forse rappresentato interamente nell’epigrafe iniziale di Bukowski: “Non sono le cose importanti che mandano un uomo al manicomio. La morte, l’omicidio, l’incesto, il furto, l’incendio, l’inondazione quelli se li aspetta. No, è la continua serie di piccole tragedie che manda un uomo al manicomio…non è la morte del suo amore, ma il laccio della scarpa che si rompe quando si ha fretta”.
E agli avvoltoi resta l’ingrato lavoro di liberare questi esseri miserevoli dai propri resti.
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