Analista politico, Niram Ferretti debutta nel romanzo con “La luce del regno”, volume coltissimo con citazioni e rimandi multidisciplinari. Protagonisti un uomo più volte colpito dal destino, alla ricerca di un’identità, la propria, anche nell’ebraismo, e un misterioso quadro, rimasto nascosto per oltre settant’anni. Un libro che riconcilia con la lettura…
Un romanzo raffinato, un autore fin qui estraneo alla narrativa, ma con saggi politici in curriculum. Il milanese Niram Ferretti ha scritto uno degli esordi più interessanti degli ultimi tempi, un libro non convenzionale, che si muove suadente e a suo agio tra filosofia e arte, pittura in particolare, interrogandosi sul senso dell’uomo e dell’esistenza, confrontandosi, problematicamente con la cultura e con l’identità ebraica. A farci i conti è l’affascinante e tormentato protagonista de La luce del regno (270 pagine, 18 euro), romanzo di Niram Ferretti edito da Giuntina, in cui l’alternarsi di prima e seconda persona è solo una delle miscele speciali.
Nozze a pezzi e due morti
Riflette sulla propria esistenza e prova a comprenderla Mattia Almiti, docente di storia dell’arte, impegnato nella stesura di un saggio, cresciuto a Milano, in una solida, benestante famiglia – padre cattolico, madre ebrea, con lei una relazione più che problematica – segnata da un lutto, la scomparsa prematura, per un incidente di Nathan, fratello maggiore di Mattia: a lui sarebbe stata destinata l’industria del padre. Non il solo colpo del destino per Mattia, omosessuale che vede naufragare un suo breve matrimonio con una donna, Solange (di lei aveva detto l’amata zia Cleo, avvertendolo: “È incantevole, ma ti darà tanto da penare”), e morire di overdose il suo grande amore, il suo allievo Yannis.
La cultura per sopravvivere
È nella cultura e nell’indagare la propria appartenenza all’ebraismo – una continua scoperta, lo condurrà anche in Israele – che Mattia riesce a sopravvivere e a reagire. In particolare, in rapporto con la propria identità e origine, prova uno scatto, un sussulto.
Sono sempre stato ai margini del mio ebraismo, in una posizione di comodo dalla quale ho guardato, da studioso, da osservatore, una realtà a cui appartengo ma a cui non ho mai partecipato vitalmente. Mi sono protetto dai calcinacci, dalla loro caduta su di me. In compenso non me ne sono stati risparmiati altri.
Pagine coltissime con citazioni e rimandi multidisciplinari conquistano il lettore e lo conducono in tutte le crepe in cui si imbatte Mattia Almiti, proiezione dell’autore probabilmente, anche se non è semplice intuire in che misura. Sono crepe, piccole e grandi, anche solo feritoie da cui si scorge comunque la luce, quella che fa capolino dal titolo del romanzo e che è riferita a un dipinto (“la storia di questo quadro è un piccolo romanzo”), rimasto nascosto settantuno anni (perché non finisse nelle mani dei nazisti), l’ultimo realizzato negli anni Quaranta del secolo scorso da Aaron Meilhac, insegnante, talmudista, provvisto di memoria prodigiosa e per nulla legato alle cose materiali. A raccontargli questa storia, a Parigi, è un amico…
Un segreto da svelare
Il tikkun cabalistico è l’oggetto del quadro, come cioè si è formato il mondo materiale e l’iniziale scintilla del tutto, “lo splendore che arde inesausto dietro tutte le fratture”. La luce del regno di Niram Ferretti riconcilia con la lettura, non teme gli abissi, si interroga, ha il coraggio di essere ambizioso, quello che si dovrebbe chiedere a qualsiasi libro degno di questo nome. In troppi hanno mantenuto il segreto sulla pubblicazione di questo romanzo. È ora di farlo conoscere a quanta più gente possibile, a cominciare dalle persone che ci sono care.
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