“Alma che visse in fondo al mare” di Martin Rua, che smette momentaneamente i panni del giallista, è una storia d’amore, una circumnavigazione intorno ad una moltitudine di isole concentriche e intersecantesi l’una con l’altra. Cosa sono una vita, una coppia, una famiglia, una comunità, se non un territorio appartato da ogni altro, che si connette agli altri su impulso di quel collante che è l’amore?
Chi di voi custodisce una parola magica capace di provocargli un black-out di attenzione? Una di quelle che funzionano come un drappo rosso. Agitata dinanzi al senno, è in grado di distoglierlo da ogni altro pensiero e costringerlo a virare verso altre, intimissime, cogitazioni.
Se possedete una di queste chiavi di accesso al vostro animo, saprete di cosa parlo. La mia calamita è Procida. Si, proprio l’isola minore tra le tre che presidiano il golfo di Napoli. La designata “capitale della cultura 2022”, nella quale, ormai da un considerevole numero di anni, trascorro il luglio. Premetto, perciò, che tra i “consigli di lettura” redatti fino ad ora, questo è, senza dubbio, uno tra i più sofferti per via di tale coinvolgimento emotivo. Di Alma che visse in fondo al mare di Martin Rua, (412 pagine, 16 euro), edizioni Polidoro, a cui infondono elan vital i battiti di un cuore prepotentemente procidano, mi sono sentita parte. Ho temuto, perciò, che la mia onestà di giudizio potesse essere compromessa. C’è, tuttavia, sempre un margine per l’esercizio critico se la partecipazione non si converte in fanatica partigianeria. Anzi, la capacità analitica può addirittura rafforzarsi davanti a un tema conosciuto a menadito. Il livello di attenzione su come esso sia stato maneggiato si alza, mentre, al contempo, si abbassa la soglia di tolleranza rispetto alle eventuali storture, finanche minime imprecisioni, di cui si ritenga imputabile l’autore.
Isole reali e metaforiche
Alma che visse in fondo al mare, è una circumnavigazione – anche temporale – intorno ad una moltitudine di isole, reali e metaforiche, concentriche e intersecantesi l’una con l’altra. Cosa è infatti una vita, cosa è una coppia, cosa una famiglia, o, infine, una comunità, se non un territorio appartato da ogni altro, che sceglie liberamente se, quando e come connettersi agli altri, su impulso di quel potente e sorprendente collante che è l’amore?
Figlia di una giamaicana e di un procidano
La storia, tessuta con un lavorio di spola tra passato e presente, Stati Uniti e Italia, comincia nella Long Island – non a caso un’altra isola – dei nostri giorni. Qui vive Alma, americana di seconda generazione, nelle cui vene scorre, oltre al sangue giamaicano della madre, quello procidano del padre, il fu Antonio Scotto di Santillo, comandante di petroliere emigrato negli USA. Da lei si reca la figlia, Precious, “affermata, apprezzata ma anche spregiudicata mercante e collezionista d’arte”, per mostrarle l’ultimo, straordinario lotto che si è aggiudicata ad un’asta. È composto da opere di Napoleone Lubrano di Scampamorte, artista procidano, alcuni dipinti del quale fanno già parte dei memorabilia di famiglia. Precious ignora la reale natura del legame tra Alma e Napoleone. Ha sempre imputato la presenza dei quadri, la predilezione di cui sono oggetto, alle comuni radici isolane dell’acquirente e dell’artefice. C’è, invece, molto di più ed è giunto il momento di fare luce sulla faccenda. Eccoci, dunque, ai blocchi di partenza dell’incursione nelle esistenze di Alma e Napoleone. Meta della tappa iniziale è la Procida degli anni Sessanta, dove incontriamo Napoleone e lo seguiamo dalla vigilia del primo vagito, fino alle soglie dell’adolescenza. Apprendiamo le ragioni di quel nome inconsueto, facciamo conoscenza con i membri della sua famiglia e le persone con cui è solito interagire: genitori, nonni, zii e compaesani. Familiarizziamo con la geografia del luogo, con i ritmi isolani, con le atmosfere vagamente esoteriche che riecheggiano in taluni usi, perfino nel lessico, locali. Nella seconda frazione dell’itinerario verso il momento della verità, fa la sua apparizione Alma. Ha tredici anni ed è già rimasta orfana della sua carismatica, bellissima mamma Precious. Sbarca nell’isola partenopea con il papà e la nanny.
I rischi di una storia d’amore
Impossibile individuare un unico elemento quale galeotto dell’innamoramento tra i due ragazzi. La bellezza di entrambi? La comune passione per le immersioni? Quella per l’arte? Fatto sta che per sapere se i due riusciranno a coronare il loro sogno d’amore, non avete altra scelta che leggere il romanzo, perché su questo argomento terrò le labbra rigorosamente cucite.
Metterò lingua, invece, su come se l’è cavata, in generale, Martin Rua in questa prova che lo ha portato, per la prima volta, lontano dai territori del giallo e del thriller, suoi spazi abituali di movimento, e su come ha interagito, in particolare, con Procida, integrata, a tutti gli effetti, nella cerchia dei protagonisti del libro.
Lodevole è, sicuramente, l’atto di coraggio di volersi complicare doppiamente la vita non solo architettando un romanzo d’amore, in più ambientandolo a Procida.
Sulla necessità di recuperare il romanticismo, in un periodo storico funestato dai venti di guerra, credo possiamo trovarci tutti d’accordo. Allora a quali insidie, celantesi nei romanzi d’amore, mi riferisco? Almeno a due, e macroscopiche. Ce n’è una legata alla percezione dei critici e del pubblico. È, infatti, idea comune che il genere sia di second’ordine. Incapace di complessità stilistica e di contenuto. Rivolto prevalentemente a lettrici. Non è inconsueto che lo stigma colpisca anche il fruitore, considerato anch’egli di gusti mediocri. L’altro rischio ricade, invece interamente sulle spalle dell’autore, che tendendo alle stelle, può, suo malgrado finire nelle stalle. Mi tocca essere esplicita a tal riguardo, lambendo quasi l’indelicatezza. Dai capolavori della letteratura mondiale che narrano storie sentimentali -cito a titolo esemplificativo tra tutti “L’amore ai tempi del colera”, per una certa affinità scaturente da quel realismo magico di cui è intriso e che riverbera anche tra le pagine di Alma che visse in fondo al mare – ai romanzi rosa delle collane reperibili nelle edicole, lo sbilanciamento è costantemente in agguato. Occorre delicatezza, equilibrio, e una storia più che solida. Una trama a prova di bordate che tentino di screditarne coerenza e credibilità.
Quanto poi all’ambientazione scelta da Rua, anche essa può rivelarsi un grattacapo. Tacendo degli altri romanzi dei quali Procida è prima attrice indiscussa, e che inevitabilmente esortano a paragoni – tra essi, per almeno uno, L’Isola di Arturo, l’aggettivo memorabile non è certo esagerato -, rimane il dubbio della sua sovraesposizione, effetto collaterale della nomina a capitale della cultura. Una furbata “cavalca onda”, quella di Rua? Ispirazione spuria o genuina la sua, visto che non vanta legami di sangue con l’isola, ma solo passione nata da consuetudine di frequentazione?
L’ultima pagina che non dovrebbe arrivare
Con tali premesse, sbilanciarsi in un giudizio espone anche me. Promuovo “Alma che visse in fondo al mare”. Martin Rua ha schivato banalità, melensaggini, smancerie. Alma, Napoleone e il loro amore sono attendibili. Autentico è lo scenario storico-geografico, riprodotto filologicamente, con rispetto e fedeltà alle tradizioni.
“Procida -lo dice ogni volta mia figlia minore quando dal vaporetto avvistiamo “Terra Murata” è il posto in cui all’arrivo sembra non lo si sia mai lasciato, e di cui alla partenza, non importa quanto tempo tu ci sia rimasto, non ti sentirai mai sazio”. Ecco. Un po’ così anche con il romanzo di Rua. Non fai fatica alcuna ad entrare nella vicenda. Subito si prova la sensazione d’essere tra conoscenti di lungo corso. All’ultima pagina… Be’ vorresti che all’ultima pagina non si arrivasse mai.
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