“Euforia” è il doloroso romanzo di Elin Cullhed sull’esistenza della grande poetessa Sylvia Plath, sui repentini cambiamenti – disperazione, confusione, mancanza di equilibrio – che la scaraventarono, nell’ultimo anno, verso una tragica fine…
“Pensavo: dovrebbe esserci un rituale per nascere una seconda volta: rappezzata, rinchiusa e poi riconosciuta idonea a riprendere la via”, scrive Sylvia Plath nel suo unico romanzo edito, La campana di vetro, pubblicato un mese prima di togliersi la vita a soli trent’anni, nel 1963. Così l’ultimo anno di vita della poetessa americana finisce sotto la lente d’ingrandimento di Elin Cullhed, l’ultimo che poteva coincidere, invece, con un nuovo inizio. Ce lo racconta Sylvia stessa in Euforia (300 pagine, 19,50 euro) di Elin Cullhed, tradotto da Monica Corbetta per Mondadori; la Sylvia immaginata dalla scrittrice di origini svedesi, che ha sviluppato per lei e il suo lavoro “una vera e propria ossessione” e che ammette, in un disclaimer iniziale, è frutto della sua fantasia, come “gli avvenimenti e i personaggi del libro che potrebbero avere una corrispondenza con la realtà”, sono oggetto di “finzione e fantasia narrativa”. Un elenco di sette motivi che ci sottopone, quasi a chiederci un certo biasimo: ci sono la pelle, attraverso cui tutto sente; il tempo; il sesso; non darla vinta a lui (a Ted, suo marito, ndr) e i suoi figli Frieda e Nicolas che si collocano rispettivamente al sesto e settimo posto.
Capitolare rovinosamente
In quello che si rivelerà essere l’ultimo anno di vita di Sylvia Plath, Cullhed fa la seguente operazione: rigoverna tutto il materiale disponibile su e di Sylvia Plath e cerca di calarsi in quel prodigio di scrittura, in quel disarmo che è la sua mente e cerca di spiegarci come in un solo anno, in modo repentino e veloce, tutto sia cambiato agli occhi della poetessa, tanto da spingerla a capitolare rovinosamente verso la fine.
In quell’anno Sylvia assume due visioni: da un lato è disperata e confusa. Un riconoscimento ufficiale da parte della critica non è ancora arrivato. Le sue poesie piacciono, ma la critica è troppo altalenante, di certo non è Ted, che miete successi. Sylvia scrive ma fatica a vedere pubblicate le sue poesie, “Mrs Jenkins mi aveva comunicato per lettera che non avevano spazio per il suo racconto firmato, nel numero successivo del New Yorker”; questo equilibrio mancato si declina in insoddisfazione e delusione. In lei vivono l’amore per il testo, che diviene una mappatura clamorosa del suo stato d’animo abbacinante, “era la mia vita, il testo”; e dall’altro il dialogo mancato tra lei e il testo, “avrei voluto dare le dimissioni dalla scrittura”, un’incomunicabilità che avverte nell’altro, incapace di leggere la sua lingua, “sapevo che tutti erano felici, quando la mia scrittura taceva perché allora era il lupo che taceva (il più delle volte)”. Quando le rifiutano una pubblicazione si sente tradita: “avevo la sensazione che mi mancasse la terra sotto i piedi, non avevo più un luogo da poter chiamare casa”.
Il quotidiano dissidio e la mistificazione
E la casa è il luogo in cui si consumano amarezze e lente persecuzioni. Elin Cullhed ci racconta come Sylvia è in attesa di diventare Sylvia Plath, di essere riconosciuta, di non essere l’ombra di Ted: “ero i nervi, ero il sangue, ero il cuore, ero la pelle bianca […] ero l’America”. È tra le mura domestiche che vive il suo quotidiano dissidio: “ero figlia, madre, moglie. Ero tutti quei ruoli. Avevo sempre saputo come si interpretavano”, ruoli che sente doverosamente di ricoprire, consapevole di sottrarre tempo alla scrittura, “come Ted anch’io volevo salire in mansarda ed essere importante, ma sapevo che qualcuno doveva sdraiarsi lì ed essere infinito per la propria figlia”. Scrittura e famiglia. Architettonicamente il lavoro di Sylvia Plath è una metafora continua del suo corpo, la prima casa dei suoi figli e luogo in cui immagina di tornare, luogo di una continua rinascita, “mi resi conto che ero io ad essere stata partorita, che il 17 gennaio di quell’anno ero stata fatta nascere a Court Green da Winifred Davies. Avevo smarrito la strada”. Questa sensazione insegue Sylvia lungo tutto il romanzo, la realtà che la circonda è “letale” per lei, “voleva farmi del male”, le sembra che nessuno ascolti “la mia felicità”, le sue “intenzioni nella vita”: E la canonica in cui si trasferisce la famiglia, al loro arrivo dagli Stati Uniti, non è solo l’abitazione in cui convivono marito e moglie, ma è anche lo spazio in cui due scrittori si esercitano e per i quali non sembra esserci la stessa potenzialità di accesso alla scrittura. Ted è colui che, alla morte della moglie, mette mano al suo lavoro inedito: poesie, pagine dei diari, il ritratto che emerge di Sylvia Plath è disegnato secondo il suo filtro, nel romanzo Sylvia racconta: “Lui era il primo e ultimo lettore, sempre, mi aveva dato dei compiti scritti, mi incoraggiava”; Ted è il suo mentore, il padre dei suoi figli, è l’uomo che colleziona successi, brillante anche nelle faccende domestiche, e Sylvia sembra trasformarlo in un idolo per se stessa: “riconosco un errore in tutta questa storia. Ti ho trasformato in una persona che non eri”. A fronte di questa mistificazione, l’alterazione della realtà arriva a toccare il punto più alto quando il lettore avverte un urlo diffondersi lungo le pagine di questo romanzo: l’uomo mette di fronte a Sylvia un incolmabile giudizio, senza diritto di replica: “Sei pazza, Sylvia. Sei diventata pazza”. Il germe della follia identificato da Ted e sbattuto in faccia alla moglie creerà una frattura, nonché una sorta di alibi: “tu non hai nessun diritto di tradirmi, per questo […] Non hai nessun diritto di riscrivere la realtà”, scrive Cullhed, immaginando Sylvia.
Spezzata, ammalata, patinata e delusa
E poi in quell’anno conclusivo accade questo: Sylvia è euforica: le comunicano che il suo romanzo, La campana di vetro, verrà pubblicato da un editore inglese e lei ha deciso “sarebbe stato firmato con uno pseudonimo” (uscirà con il nome di Victoria Lucas, ndr). Un’euforia effimera che si esaurisce di fronte alla consapevolezza di essersi “spinta troppo in là, ero stata troppo audace”. Quella campana di vetro, sotto la quale ritiene di aver sempre vissuto, la mette a nudo, denuncia un ritratto agghiacciante: Esther Greenwood, la protagonista, che per tanti aspetti è stata associata alla sua autrice, in una sorta di semi-autobiografia, è una giovane donna spezzata, ammalata, patinata e delusa. A Sylvia viene chiesto troppo ed è questo che ci racconta parossisticamente il romanzo: una donna che vive l’impossibilità di sottrarsi al giogo sociale, che guarda l’uomo che ha amato sentendosi: “una persona che voleva colonizzare, voleva mangiarmi, voleva ospitarmi, voleva preservarmi”. Una donna disposta a mostrarsi per ciò che è, con l’unico strumento di persuasione e di forza che possiede: la parola. “Lui amava che io pensassi e poi rimuginassi sui miei pensieri fino a sbriciolarli, tanto che in seguito nei miei scritti non ne rimaneva più niente. Lui amava che ci provassi, ma senza riuscire”.
È un anno cruciale e definitivo, ora lo sappiamo. Le sue ombre non riescono a tacere e il tradimento di Ted è gigantesco. Da Court Green, si trasferisce nella casa appartenuta al poeta William Butler Yeats. Potrebbe essere un nuovo inizio, ce lo dice all’inizio del romanzo, non vorrebbe darla vita proprio a lui, sentirsi esasperata e spaesata e invece Sylvia si addormenta per sempre. Elin Cullhed dà voce ad un’assente, una voce forte, la stessa che possiamo ritrovare in mezzo alle sue poesie, usa la voce di una donna per darci la sua versione dei fatti, forse, finora, la versione più indecifrabile.
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