Un piccolo paese nella Polonia orientale dimenticato dalla Storia e che non ha vissuto gli orrori del XX secolo, dalla Shoah all’Urss. Un idillio e un equilibrio rotti da un divorzio, con la donna che si spinge laddove nessuno è andato da oltre un secolo. Con “Lo shtetl perduto” Max Gross ha scritto un formidabile tragicomico romanzo che guarda a Isaac Singer, al primo Roth, alla scena contemporanea della narrativa ebraico-americana. Tra dolore e risate si assiste a un duello fra cambiamento e conservazione, riflettendo sull’identità e sul tempo, su discriminazioni e antisemitismo
Un romanzo formidabile, figlio di un’idea suggestiva, con pagine che fanno contemporaneamente pensare, ridere, piangere. Con paradossi portati all’estremo, con ironia viva, vibrante, con un’immaginazione magnifica. Con echi di tante letture, inconfondibili, da Isaac Singer a certi primi libri di Philip Roth, fino agli attuali protagonisti della scena ebraico-americana nella letteratura d’Oltreoceano. Li ha letti tutti Max Gross – giornalista di New York, formatosi in un settimanale ebraico, passato dal New York Post e adesso ai vertici di un’altra testata, il Commercial Observer – e ne ha scritto uno che non sfigurerebbe accanto ai migliori del genere, perché a quei “prestigiatori” del romanzo ha rubato parecchi trucchi. Gross, nella nota finale del suo libro, indica anche Primo Levi fra i debiti e le fonti d’ispirazione, si definisce un dilettante per quanto riguarda l’yiddish, e pronostica critiche per eventuali dettagli non riusciti e per qualche imprecisione. Poco male, il cuore del suo romanzo batte comunque forte, si fa sentire, eccome, le sue pagine rapiscono.
Qualcosa si spezza nel teatro dei sogni
La più fitta foresta polacca, a est, nasconde un segreto, o meglio un villaggio che nessuno conosce e non risulta nelle mappe, Kreskol, un piccolo insediamento ebraico rimasto fuori dal tempo, immutabile; i suoi abitanti parlano yiddish e sono ignari della Shoah, come della Guerra Fredda: non hanno Internet, non sanno cosa sia un motore di ricerca, sono privi di tutti i comfort delle più moderne tecnologie, ma vivono in un’oasi di pace, o quasi. Lo shtetl perduto (443 pagine, 19 euro) di Max Gross, pubblicato dalle edizioni e/o, tradotto da Silvia Montis, prende un posto immaginario e celato agli occhi della Storia, dal tramonto dello zarismo a quello dell’Urss, e ne fa un teatro dei sogni. Un idillio – costruito sui riti della tradizione, risparmiato dagli orrori del ventesimo secolo – spezzato però da una bega coniugale. Un luogo che ripiomba nel mondo perché una donna si separa dal marito, lo lascia e fugge laddove nessuno si era mai spinto, da oltre un secolo, nella Polonia dei giorni nostri.
Un amore, naturalmente
Sulle tracce di Pesha Lindauer, questo il nome della donna, finirà Yankel Lewinkopf, un orfano insignificante, tutt’altro che un buon partito, aiuto fornaio a Kreskol, incaricato dai rabbini di riportarla indietro. I due si ritroveranno nella stanza di un bordello di Varsavia, dove lei (ribattezzata Teresa) è alle prime armi, ma abbastanza disincantata, e lui si presenta vergine. I due parleranno, senza consumare alcun amplesso, ma inizieranno a frequentarsi.
Yankel si innamorò di Pesha all’istante nel modo in cui solo i più giovani possono amare: all’istante, e in modo incondizionato e implacabile.
Passa il tempo, non l’antisemitismo
Tra dolore e risate c’è una sterzata ulteriore d’inventiva, oltre che sulla storia d’amore, anche sull’impatto della modernità nelle nostre vite, come si evince da quello invasivo, con tanto di lusinghe del turismo e delle tecnologie e di una potenziale ricchezza, con cui dovrà fare i conti lo stesso villaggio rimasto indietro nel tempo, ma non più sconosciuto: a Kreskol andrà in scena un duello fra cambiamento e conservazione, senza dimenticare una profonda riflessione sull’identità e sul tempo, su discriminazioni e antisemitismo; accadrà dopo che Yankel Lewinkopf (il primo a scoprire l’atroce destino di milioni di ebrei del Vecchio continente) tornerà a casa a bordo di un elicottero del governo polacco, e i suoi compaesani penseranno all’arrivo del… Messia. Il doppio finale di questa versione aggiornata di certe favole yiddish è tutt’altro che scontato, Max Gross lo costruisce con grazia e originalità, ma concedendo poco o nulla alle aspettative del lettore.