Scritto in una lingua densa e palpitante, ambientato al tempo del terremoto che nel 1908 sconvolse lo Stretto di Messina, il nuovo romanzo di Nadia Terranova, “Trema la notte”, ha come protagonisti una ragazza e un bimbo. E i vivi e i morti che li accompagnano. Una storia che sta sul baratro dell’imprevisto, con più di un riferimento letterario…
Trema la notte (176 pagine, 16,50 euro) di Nadia Terranova, Einaudi, è un romanzo che cattura e non ti lascia più.
Con una luna appuntata sul petto.
Se c’è un istante insondabile è quello del prima che determina il dopo. Il mistero racchiuso nel momento preciso in cui ogni cosa prende una direzione imprevedibile e ogni equilibrio viene sovvertito. Esattamente lì stanno il bene e il male, ogni umana fragilità, l’estremo del non si torna indietro, del non sarà più come prima. Gli esseri umani lo sanno anche quando si distraggono, non ci pensano, fanno di tutto per disorientare il ragionamento di fronte al baratro dell’imprevisto.
L’istante insondabile
Trema la notte è il romanzo dell’istante insondabile, del mistero contenuto in ogni realtà, davanti al quale si trovano Barbara e Nicola, una giovanissima donna lei, un bambino di undici anni lui. L’una di Messina, l’altro di Reggio Calabria, le due sponde dello Stretto che si guardano e si raccontano tra il passato e il futuro. Il presente narrativo è la notte del 28 dicembre 1908, momento in cui il terremoto ha sbilanciato e scompigliato le carte del destino non solo dei due protagonisti ma di comunità intere. Il momento in cui le città scompaiono nella furia dei boati e si perde tutto. In ventidue capitoli, come ventidue sono le carte degli Arcani maggiori dei Tarocchi che tracciano l’invisibile, Nadia Terranova vola e si inabissa, uccello acquatico e lunare, nella storia e nelle vite, nel pubblico e nel privato. Ritorna alle ferite del passato storico per sondare il rimosso collettivo, per ricominciare laddove ogni esistenza affonda le proprie radici.
L’orfana che sfugge al matrimonio
Barbara è orfana di madre, Le porte dell’infanzia erano state tutte malferme… e desidera la libertà da un padre che la vuole moglie di un uomo che lei non desidera, obbligata in un ruolo che la farebbe donna legittimata agli occhi della società. Si sente prigioniera nella gabbia di un paese di provincia, Scaletta Zanclea, lei vorrebbe, invece, studiare, coltivarsi e si rifugia nei libri, nella lettura di Maria Landini, il romanzo di Letteria Montoro, scrittrice e poeta nata a Messina nel 1825 e a cui Nadia Terranova fa esplicito riferimento rivelando una costante del proprio lavoro: la riscoperta e valorizzazione dell’opera delle donne ingiustamente nascoste alla memoria. Al ritorno dal teatro Vittorio Emanuele che le è permesso frequentare con la nonna nei brevi soggiorni a Messina, Barbara si è appena addormentata, ha ancora nelle orecchie le note dell’Aida di Verdi, e negli occhi il bruno ragazzo che l’ha incontrata appena fuori dal foyer. Barbara, che ha desiderato la libertà, che ha tanto voluto che si sovvertisse la direzione del proprio cammino, si ritrova sola in mezzo alle macerie.
Alle cinque e ventuno, a Messina, città mio desiderio e meta, mia origine e scelto destino, capitale e antitesi del paese da cui scappavo, i vivi non esistevano più. Solo i morti e i morti viventi… La ragazza venuta giù assieme alla facciata del suo appartamento ero io. La ragazza portata via dalla finestra, dirupata da un misero secondo piano sopra un mucchio di macerie, aveva la mia faccia, la mia pelle. Quel cumulo dalla grottesca accoglienza, quel cumulo di mura e oggetti che erano stati la mia vita, aveva salvato il mio corpo, sotto di me potevano esserci tavoli e tende, armadi ed esseri umani.
Il bimbo che sopravvive ai genitori
Nello stesso istante, sull’altra sponda, a Reggio Calabria, c’è Nicola, il cui padre non ha tempo per la famiglia, occupato com’è nel fiorente commercio del profumo di bergamotto da lui stesso creato e la cui madre, Maria, lo soffoca ossessionata dall’idea che il diavolo è sempre in agguato e può rapire il figlio. Per questo motivo, un anno prima, ha portato il bambino dalla cartomante Madame (che avrà grande importanza nello sviluppo delle vicende) che nelle carte ha visto una creatura con le corna e con le ali, mezza demonio e mezza angelo, con il petto da donna e tra le gambe il sesso degli uomini, seduta su un trono e con delle catene alle caviglie, che si allungavano fino ai piedi di due piccoli aiutanti, un diavolo maschio e uno femmina, entrambi in miniatura.
Di notte, Nicola è costretto a scendere in cantina dove, come in una cerimonia, la madre lo lega mani e piedi con le corde sante, così che il diavolo non lo possa rubare, e lo costringe a dormire dentro un catafalco.
Nelle pieghe del racconto compaiono in modo elaborato e connaturato alle frasi i riferimenti letterari di cui è colma e fertile la scrittura di Nadia Terranova. Di Stefano D’Arrigo ho sentito il richiamo e dell’Horcynus Orca in cui, in un passaggio, compare un bambino su un catafalchetto bianco addobbato come una culla, illuminato da un raggio di sole. E Fera è il cognome di Nicola.
Nicola Fera aprì gli occhi mentre Reggio Calabria gli crollava addosso. Il lenzuolo sotto le sue natiche era bagnato di piscio, il tetto della cantina crepato dalle proiezioni dei suoi stessi incubi. Il tempo di drizzare le orecchie e l’apocalisse era già iniziata.
Il bambino non conosce amore e vorrebbe fuggire da quello fagocitante della madre. Sopravvive ai genitori morti nel crollo.
Destinati a incontrarsi
Cosa accade, quindi, dopo l’istante definitivo, dopo il prima irrimediabile? Cosa si può fare dopo essersi persi, dopo aver vagato in una dimensione che ha azzerato il tempo e lo spazio? Come rimanere ancorati alla vita quando gli esseri si trasformano in anime?
Le anime dei cani, dei gatti, degli uccelli, e di tutti gli animali morti, spazzati via dalle acque dei torrenti, mangiati dal mare, avrebbero continuato a vivere assieme a quelle degli esseri umani.
Barbara e Nicola, che sulla torpediniera Morgana arriva a Messina, sono destinati a incontrarsi, (come non pensare a Calvino, alle combinazioni possibili di eventi e di parole?) e accade in un momento di concentrazione del trauma, nel momento della violenza sul corpo della ragazza a cui il bambino assiste rimanendo a lungo muto. Entrambi dovranno fare i conti con la vergogna e la colpa che si attribuiscono per ciò che accade, la colpa d’avere desiderato la liberazione. La narrazione procede così a doppio filo, in prima persona racconta Barbara, in terza leggiamo Nicola, i protagonisti seguono strade diverse e poi nuovamente si ritrovano in un crescendo emotivo che si restringe e si allarga sui personaggi in modo straordinario. È della vera letteratura condurre su percorsi che si diramano senza mai disorientare, che si allontanano e tornano in un movimento che dal particolare va all’universale e viceversa.
L’acqua
La lingua densa, palpitante del romanzo proietta lo strazio del terremoto, la descrizione delle macerie, delle case, degli oggetti, dei corpi, degli abiti tolti ai morti per vestire i vivi. Della polvere che ricopre ogni cosa, che si insinua nei respiri, che secca la gola sempre più assetata. L’acqua, richiamo ancestrale che è mare, l’acqua che fa sopravvivere. Bevve e pensò che doveva centellinare l’acqua, e forse sarebbe sopravvissuto il più a lungo possibile: senza mangiare si può vivere ma senza bere no, così aveva sentito da Maria, la madre carceriera che controllava anche quanta acqua lui lasciava nel bicchiere…
L’acqua, che spinge Barbara a una ricerca spasmodica che la condurrà a subire la violenza ma che diviene origine nella maternità e nel parto.
La ragazza aveva sete. Le sue guance erano scavate e i capelli formavano un grumo escrescente all’altezza della nuca, capelli pettinati poco e male. Tirò fuori una voce preistorica: – Su questa nave, avete acqua?
L’acqua, simbolo di rinnovamento e purificazione, femmina come la Luna.
Una scrittura sanguigna che si muove nel mistero di vite, tante vite, in una coralità in cui compaiono donne che cercano la sopravvivenza. Donne come Jutta e Rosalba, la piccola Emma, che lottano, che pregano, che si proteggono, che non si risparmiano, che cercano risposte nell’Arcano, che costruiscono la rinascita puntando piedi e cuore nel dolore. Una forza che si moltiplica nell’essere sorelle e famiglie per volontà e compassione. Nell’essere madri di carne e di spirito.
Ogni parola scelta con cura, la parola cura
Il disastro e la ripresa, la pena e la speranza, ogni parola è scelta con cura, perché la parola cura. Con la sua lingua musicale e poetica, con piccole perle in siciliano, picciriddu, minestra sabbaggia, Nadia Terranova costruisce la realtà soffiando sul mistero, scomponendo i sentimenti nelle sfumature, mischiando superstizione e saggezza, con quella sua personalissima abilità narrativa di costruire attraverso i legami tra le cose, anche, all’apparenza, le più distanti. Lo fa con grazia disseminando indizi di relazione (Il Giornalino della Domenica lo legge Nicola, Barbara, poi ancora Nicola quando andrà a vivere presso una nuova famiglia), oggetti, evocazioni che tessono un grande affresco di un’epoca che è storia fino al presente, come a volerci suggerire che siamo tutti connessi e che gli estremi si compongono e si rinnovano. Che ci sono fili invisibili che attraversano le vite anche solo sfiorandosi, e che ciò che ricade sotto i nostri sensi è solo una parte dell’esistenza.
Dei destini di Barbara e Nicola e dei tanti, morti e vivi, che li accompagnano seguiamo lo specchiarsi fino a oggi, li amiamo perché sono come noi, che tremiamo nel disastro e cerchiamo, disperatamente, la felicità.
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