A cento anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini uno sguardo alle colonne sonore dei film che realizzava, e al suo più straordinario esperimento musicale, quello del film “Accattone”. La passione bachiana è una scelta iconoclastica e dirompente, propone un percorso di riconoscimento della verità e lo fa sul piano dell’evocazione e del misticismo…
La scelta della musica all’interno di una pellicola cinematografica dispone infiniti canoni espressivi, crea storie dentro le storie, combatte contro o a fianco delle immagini, le esalta o ce le fa odiare. Forse il più straordinario esperimento musicale di Pier Paolo Pasolini, di sicuro quello che ha lasciato più il segno, lo troviamo all’interno del suo primo film, Accattone. Del resto, da Uccellacci e uccellini all’episodio Cosa sono le nuvole? (all’interno di Capriccio all’italiana), le scelte musicali del regista Pasolini sono state sempre l’evidente esito di una ricerca acuta e attenta, paragonabile alla ricerca dei luoghi da lui scoperti o riscoperti: dalle abitazioni ctonie della Cappadocia in Medea, allo Yemen di Sana’a in Il fiore delle Mille e una notte.
Amore e morte
La musica di Accattone ruota in fondo attorno al coro finale Wir setzen uns mit Tränen nieder dalla Passione secondo Matteo di J. S. Bach, oltre che all’Andante del Concerto Brandeburghese n.2 in Fa Maggiore dello stesso autore. Non meno importante, dobbiamo ricordarlo, è la tragica e crudele Fenesta ca lucive intonata dal guappo durante la violenza su Maddalena, la protetta di Accattone, sulla quale si scatena la vendetta dei napoletani a cui aveva fatto lo sgarro di sottrarla: un canto di amore e morte, come è tutto il film del resto, un canto classico e arcaico, molto vicino alla tradizione operistica (anche se l’attribuzione a Bellini di Fenesta ca lucive non è confermata ed anzi è probabile che canti popolari come questo siano stati al contrario di ispirazione per i compositori d’opera, come avveniva dai tempi di Händel).
La passione bachiana di Accattone può sembrare in un primo momento una scelta didascalica, che vira subito verso la tragedia, solenne e inevitabile come quella del Cristo che si sacrifica per i suoi simili: un sacrificio che sa, comunque, di sfida se pensiamo, in questo senso, alla scena del tuffo nel Tevere del protagonista, sarcasticamente chiosata dalla celebre battuta, “damo soddisfazione ar popolo”.
Immagini e musica stridono
È anche, programmaticamente, una scelta iconoclasta, dirompente, come la cacciata dei mercanti dal tempio, che permette a Pasolini di tessere questo controcanto: la Passione degli ultimi ripropone ogni volta la Passione di Gesù, e in questo lo stridere tra immagini e musica trova la massima tensione narrativa. Ma è solo questo o c’è ancora qualcosa che è più in profondità? Accattone, lo sappiamo, corre verso la morte sin dalla prima scena, e il regista ne anticipa il canto funebre già nei titoli di testa tanto che il testo bachiano recita: “Noi ci sediamo a terra, in lacrime, e a Te nel sepolcro gridiamo: Dolce riposo, riposa in pace!”. Ecco, alfine, che sin dall’opera prima, Pasolini propone un percorso di riconoscimento della verità (“Quid est veritas?” per citare un altro testo evangelico), e lo fa sul piano dell’evocazione e del misticismo dimostrando, se vogliamo ribaltare i significati, che la strada del realismo, anche il più crudo, si può percorrere accompagnati per mano dall’astrazione, dalla visione, fondata però su un’analisi scientifica della realtà, come è quella antropologica ed etnografica di cui Pasolini fu protagonista indiscusso nei suoi film ambientati negli anni dell’estinzione della civiltà rurale.
La grazia in un pugno di polvere
Per Pasolini il coro bachiano è, quindi, il leitmotiv di una vita che sembra sprecata, perché porta ad un sacrificio in fondo inutile, ma che è indispensabile per sé. L’amore dell’intellettuale Pasolini per l’umanità, che è francescanamente per tutto il creato, passa dall’accettazione che il darsi agli altri, rinunciando alla propria libertà, è un gesto nobile ma insicuro e, in fondo, appunto inutile. Donare la propria vita ad un’idea, o appunto agli altri, ha senso solo se la scelta viene fatta per sé: il canto funebre serve a Pasolini per dimostrare questo, che la speranza di una redenzione non può che guardare alla morte ma che la vita che noi siamo destinati a perdere va celebrata sempre e in ogni momento come un rito sacro, e bello. Ma sacra è la violenza, la sopraffazione, la miseria morale e materiale, sacro il mondo abitato da Accattone? A questo fa pensare la scelta bachiana, a una provocazione come dicevamo, alla necessità di squarciare il sipario, di far vedere i veri santi di Dio. E a questo ognuno di noi pensa, in un primo momento. Ma, subito dopo, appare chiaro l’intento più vero di Pasolini, e cioè rappresentare un uomo che vede la morte, ne ascolta da subito il canto di dolcezza e non può cantare con la stessa grazia la vita, anche nei momenti ultimi. La disperazione di Accattone nasce dalla sua capacità di sentire troppo lontana la bellezza struggente della vita, e noi percepiamo come nelle sue lunghe camminate ascolti insieme a noi la musica potente di Bach ma come in un sogno. E la sua morte chiude questo sogno che ha provato a immaginare e che ci appare tragico proprio perché solo, e in parte, immaginato. E allora sì, sembra sacra anche la polvere sollevata dai motocarri tra le baracche, sacra perché ogni vita conta. “Vi mostrerò il terrore in un pugno di polvere”, diceva Eliot riscrivendo i vangeli. Ma Pasolini ci ha mostrato anche la grazia in un pugno di polvere.
Dolce riposo, riposa in pace.