L’articolo di Pasolini in classe e il punk rimasto addosso

Un ricordo dei tempi del liceo. Un professore che legge un articolo di Pasolini, “Contro i capelli lunghi”. E una domanda che risuona a distanza di tanti anni: non ci accorgiamo di come l’uniformità facesse perdere ai nostri simboli il loro reale significato, svuotandoli del senso originario per cui erano stati coniati?

Quindi, ragazze, cosa ci dice Pasolini? Rileggiamo: che quei capelli lunghi, che per lungo tempo avevano alluso a “cose di sinistra” “alludevano adesso a cose di Destra. Il ciclo si è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto pazientemente una moda, che, se non si può proprio dire fascista nel senso classico della parola, è però di una «estrema destra» reale.” 

Sinistra e destra

Così il mio professore di lettere – al quinto anno di scuola superiore – interrompeva la lettura dell’articolo di Pier Paolo Pasolini “Contro i capelli lunghi” per spiegarci e sottolineare dei passaggi importanti. 

Così leggeva e spiegava, spiegava e leggeva mentre io, maglia di Che Guevara (capellone anche lui) sotto la felpa invernale, lo ascoltavo con smarrimento.

Come poteva un simbolo di “sinistra” essere diventato di “destra”? Mi chiedevo. 

Come potevamo noi, in qualunque moda si sviluppasse e diffondesse, non accorgerci di come l’uniformità facesse perdere ai nostri simboli il loro reale significato, svuotandoli del senso originario per cui erano stati coniati?

Un articolo trentatré anni dopo

Ma occorre fare una premessa doverosa, prima di continuare a raccontare di come quell’articolo del Corriere della Sera del 7 gennaio 1973, letto in una classe di scuola superiore nel 2006, avesse portato a pormi queste domande e a sentirmi smarrita.

Quel giorno, trentatré anni dopo la pubblicazione di quell’articolo, un professore di lettere parlava per la prima volta, in aula, di Pier Paolo Pasolini. E lo faceva in una classe di quindici ragazze, in un istituto magistrale dell’entroterra siciliano. In un luogo, insomma, dove tutte le ragazzine neo-diciottenni fanno della moda e dell’uniformità un marchio da imprimere sulla pelle per essere accettate dal loro branco. 

Lo scooter, i primi piercing, i jeans a vita bassa e a zampa di elefante, i capelli mesciati: tanti simboli di quella che voleva essere una presa di posizione contro “il perbenismo degli adulti e dei professori bacchettoni”. Ma quel giorno, ascoltando le parole di Pasolini, mi accorsi come in realtà non dicessero proprio nulla.
E non dicevo neppure nulla io, quindi. Io che come i capelloni cercavo di distinguermi. E come loro, cercavo di farlo senza ricorrere alla comunicazione verbale. Io lo facevo portando indumenti neri e maglie rosse, ciondoli con Che Guevara appesi al collo e bracciali borchiati intorno ai polsi, capelli con ciocche dei vari colori dell’arcobaleno. Non stavo anche io seguendo – forse – una moda? E quindi un linguaggio ormai appassito e vuoto?

Conoscere PPP

«Noi siamo due Capelloni – scrive Pasolini all’inizio dell’articolo cercando di parafrasare questo stile di acconciatura che – rifiutando l’utilizzo del linguaggio verbale – vuole comunicare qualcosa. Un qualcosa che Pasolini mise nero su bianco tramite un’approfondita analisi semiotica – Apparteniamo a una nuova categoria umana che sta facendo la comparsa nel mondo in questi giorni, che ha il suo centro in America e che, in provincia (come per esempio — anzi, soprattutto — qui a Praga) è ignorata. Noi siamo dunque per voi una Apparizione. Esercitiamo il nostro apostolato, già pieni di un sapere che ci colma e ci esaurisce totalmente […] Il sapere che ci riempie, anche per tramite del nostro apostolato, apparterrà un giorno anche a voi. Per ora è una Novità, una grande Novità, che crea nel mondo, con lo scandalo, un’attesa: la quale non verrà tradita. I borghesi fanno bene a guardarci con odio e terrore, perché ciò in cui consiste la lunghezza dei nostri capelli li contesta in assoluto. Ma non ci prendano per della gente maleducata e selvaggia: noi siamo ben consapevoli della nostra responsabilità. Noi non vi guardiamo, stiamo sulle nostre. Fate così anche voi, e attendete gli Eventi.»

Non era questo che volevano dire le mie compagne di classe, scoprendo l’ombelico? E non era questo che stavo dicendo anche io, tra le poche a usare un make-up pesante e dark, con tanto nero intorno agli occhi?

Una moda borghese

Quel giorno, a diciotto anni compiuti da poco, conobbi Pasolini.
Quel giorno, nel cercare di dominare le pulsioni di una rivolta interiore che ostentavo e rimarcavo esteriormente con accessori “moda” secondo me “di sinistra”, stavo forse dicendo anche io qualcosa “di destra”?

Dicevo anche io – come dicevano le mie compagne – a chi ci guardava che noi eravamo la novità? Probabilmente si, come facevano i capelloni prima del ’66 (così come parafrasati in quell’articolo da Pasolini).
Ma anche noi, ben presto, avremmo parlato come i capelloni degli anni ’72, così come ce li narrava Pasolini alla fine del suo articolo?

«Noi non apparteniamo al numero di questi morti di fame, di questi poveracci sottosviluppati, rimasti indietro alle età barbariche! Noi siamo impiegati di banca, studenti, figli di gente arricchita che lavora nelle società petrolifere; conosciamo l’Europa, abbiamo letto. Noi siamo dei borghesi: ed ecco qui i nostri capelli lunghi che testimoniano la nostra modernità internazionale di privilegiati!»
Quei capelli lunghi alludevano dunque a «cose» di Destra.

Quel giorno, a diciotto anni appena compiuti da poco, conobbi Pasolini. Lui mi disse che il mio stile “da sinistra”, da ribelle, quanto lo stile delle mie compagne “contro gli adulti”, non erano altro che una moda. E per di più una moda borghese. Nulla di più. 

E io, borghese, quel giorno, capii di non volerlo essere. Mai. 

Due rette parallele

Inevitabilmente nella mia mente da punkettona – ammaliata dall’ultimo cd dei Green Day (ai tempi di American Idiot) e che in ogni traccia di quell’album leggevo messaggi “di sinistra” – si fece strada il ricordo di una intervista al frontman della band, Billie Joe Armstrong, in cui diceva forse qualcosa di simile.  

“Un giorno un ragazzo mi chiese “Cos’è il punk?” Allora io diedi un calcio a un bidone e dissi “Questo è punk!” E allora lui fece la stessa cosa e mi chiese “Questo è punk?” e io risposi “No, questa è solo imitazione!”

Nella mia mente il punk dei Green Day e la semiotica di Pier Paolo Pasolini erano, in quel momento, su due rette parallele. Certo, non si sarebbero incontrati mai. Ma erano pur sempre su due rette parallele.

Rileggo ora, a diciassette anni di distanza da quella lezione, l’articolo con cui conobbi Pasolini. E penso che si, in qualche modo, mi ha insegnato qualcosa, quel giorno. O forse me l’ha insegnata il mio professore, scegliendo di leggere in aula – quel giorno – proprio quell’articolo, e non un altro, o non scegliendo – per quel giorno – un altro autore.

Di quel giorno, ancora oggi, qualcosa mi è rimasto. E forse anche un po’ di punk.  

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *